giovedì 24 maggio 2012

Seguito della polemica sulla bandiera con lo stemma dei Brancaleoni di Piobbico


Il pianto dell’araldo che tradotto in uno stile un po’ burlesco e brusco per rifarsi alle origini della categoria, gente di poco rispetto, menestrelli, trombetti e affini ha avuto una risposta, che per ovvie ragioni di riservatezza non pubblico.
Però nelle more di qualche movimento, un sussulto di verità, che porti a rettificare lo stemma del vessillo, rendo pubbliche le mie repliche alle obiezioni poste al mio primo intervento postato in questo blog il 9 aprile 2012.

La replica alle osservazioni che stanno alla base della mia richiesta non proviene dal sindaco e nemmeno dal presidente della proloco, che ho citato come probabili responsabili della gestione del castello (che è demaniale e di cui non hanno la gestione), né dal grafico che ha realizzato la bandiera, ma dal curatore (e proprietario) della maggior parte delle collezioni esposte nel castello.  

Mi viene replicato che lo stemma che si è voluto rappresentare nella bandiera è quello del conte Antonio Brancaleoni.

Ebbene, lo stemma di Antonio Brancaleoni è rappresentato, con i suoi veri smalti, nella camera greca decorata nel 1585. Certo quello stemma è meno appariscente di quello in stucco del Brandani, ma c’è ed è accompagnato dalle iniziali del committente A B.

Il leone azzurro in campo bianco (con la brava fascia in capo) si trova anche in piatti in ceramica esposti nel museo, come ho ricordato nel mio intervento del 9 aprile.

Erano quelli, il bianco del campo e l’azzurro del leone, gli smalti dello stemma dei Brancaleoni, anzi degli stemmi di vari rami dei Brancaleoni. Su questo non c’è dubbio. Lo testimoniano gli esempi citati, ma anche altri.

Mi viene fatto notare che furono: “tanti i rami dei Brancaleoni , famiglia molto prolifera, ed ogni ramo nel tempo ha cercato di distinguersi dall'altro apportando qualche leggera modifica all'avito stemma di famiglia che rappresentava il leone rampante (…). Alcuni hanno modificato gli smalti altri addirittura hanno scelto una parte della nobile belva invece dell'intero animale”.

In effetti per quel che mi consta, nessuna famiglia dell’area ha avuto tante brisure dello stemma avito per meglio caratterizzare i diversi rami quanto i Brancaleoni.

Quelli di Piobbico: un originario leone azzurro in campo bianco.

Quelli di Castel Durante: brisarono l’arma del leone azzurro in campo bianco con l’aggiunta di una banda rossa. Tale stemma rimase comune a entrambe le linee a seguito della divisione tra Casteldurante da una parte (poi emigrato a Rimini dopo la cacciata ad opera di Guidantonio da Montefeltro su incarico di Martino V nel 1424) e Mercatello-Sant’Angelo in Vado dall’altra estintasi con Gentile prima moglie di Federico da Montefeltro, deceduta nel 1458.
Quelli di Castel Pecoraro: brisarono l’arma del leone azzurro in campo bianco assumendo una parte della “nobile bestia” una branca (come ricordato dal mio interlocutore), ma sempre azzurra in campo bianco.

Sembra che un altro ramo (mi pare per via della Rocca, ma questa è una parte che devo approfondire) giunto a Rimini mutò gli smalti della sua sola branca, forse proprio in un campo azzurro con la figura d’oro (secondo una delle indicazioni fornite dal Di Crollalanza nella sua confusa voce “Brancaleoni dell’Umbria” nel celebre Dizionario. Ma questa è un’altra storia che non riguarda il ramo di Piobbico e il suo castello.

Invece riguarda il ramo di Piobbico una delle più tarde attestazioni dello stemma a colori. Si trova in una delle sale della Biblioteca centrale dell’Univeristà di Urbino (palazzo Bonaventura): il leone è appunto azzurro (o un colore virato) in campo bianco con la fascia in capo.

Gli smalti sono dunque quelli che l’araldo invoca e non l’azzurro e l’oro presenti nello stemma della bandiera di cui si discute.

Si osserva, con riferimento al leon d’oro in stucco realizzato dal Brandani, che il celebre artista non avrebbe osato fare un’arma diversa da quella del committente.

Invece, alla luce di quanto detto poc’anzi il bel lavoro del Brandani si rivela per quello che è: una decorazione manierista in stucco dorato e naturalmente dorate sono le figure principali dell’arma: il leone e la croce. Non fu una variazione bizzarra e arbitraria dello stemma del committente. Tutti conoscevano lo stemma del signore e nessuno sarebbe stato ingannato da quell’interpretazione artistica.

Il bel leone brandanesco attira l’attenzione e col passare del tempo confonde le idee. Nessuno per secoli si è interessato a curare l’immagine dell’antica stirpe e la memoria si è persa. Capita, molto più spesso di quanto si pensi. Cito il caso dei Gozi di San Marino, eredi della casata degli Oliva conti di Piagnano e signori di Piandimeleto, che nel loro stemma hanno l’arma di quegli antichi signori, ma con gli smalti errati, ancora una volta.

Con riguardo a quanto da me scritto il 9 aprile scorso riguardo alla fascia con la croce posta in capo, risponde che la croce è quella dell’Ordine di Malta assunta dal conte Antonio che partecipò alla battaglia di Lepanto.

Sono molto lieto di sapere che la fascia con la croce è dovuta all’Ordine di Malta. D’altra parte era la prima delle tre ipotesi che, nel dubbio, ho citato come plausibili. Un incremento araldico che è dunque collegato alla battaglia di Lepanto, che a modo suo fu l’ultima crociata (seconda ipotesi citata). Nei miei pensieri io avevo ipotizzato (in attesa di poter verificare a tempo debito) un collegamento con l’intervento in terra d’Otranto citato dal Tarducci. Ma in effetti a me pare che la cosa debba essere approfondita, non solo perché Tarducci dice che la croce venne aggiunta in capo nientemeno che da Pazzo (1318-1327), ma perché compare anche sopra uno dei due leoni rappresentati negli statuti di Piobbico nell’edizione manoscritta del 1518 conservata al Senato. Sul fatto che la croce appaia sovente patente potremmo anche sorvolare.
 
Al mio citare un “tardo richiamo imperiale” si obietta: “mai un Imperatore avrebbe usato la croce come capo, essendo l'aquila Imperiale quello che connotava le sue gratificazioni e tale era la differenza che distingueva le grazie della Chiesa da quelle dell'Impero”.

Mi preme precisare, giusto per non far sembrare che il piangente araldo le spara grosse a casaccio, che il “tardo” richiamo imperiale (la terza ipotesi) si riferisce all’uso notorio dell’arma di rosso alla croce bianca caratteristica della parte imperiale o ghibellina che dir si voglia (nell’araldica civica, ma anche in quella nobiliare), contrapposta alla croce rossa in campo bianco tipica della parte guelfa e anti imperiale (si pensi al caso più noto di Milano, ma anche Firenze che non aveva una croce ma invertì gli smalti da ghibellini a guelfi nel 1252 con l’avvento del governo popolare, come ricorda Dante nel Paradiso). L’uso dell’aggettivo “tardo” si riferiva appunto ad un anacronismo, essendo caduto in disuso l’antico emblema imperiale ai tempi della comparsa della fascia nell’arma dei signori di Piobbico.

In definitiva l’araldo insiste nella necessità di modificare gli smalti dello stemma: campo bianco e leone azzurro, come nello stemma dei Brancaleoni di Piobbico, lasciando per buona la fascia in capo rossa con la croce bianca.

Vien definita la nostra polemica bizantina e estranea agli sforzi volti al prestigio del castello e delle sue collezioni.
Invece si tratta di ridare dignità allo stemma dei signori di Piobbico per adesione alla verità storica proprio per elevare il prestigio di questo prezioso bene monumentale.
La mia replica, inviata il 16 aprile, non ha avuto ancora risposta.


(Il vero stemma dei Brancaleoni di Piobbico - conte Antonio)

(Lo stemma "artistico" realizzato dal Brandani)

(Bandiera con lo stemma errato negli smalti del campo e del leone)

martedì 22 maggio 2012

L'araldica nei sigilli della famiglia di Paolo da Montefeltro (XIV sec.)

A. Conti
In "Nobiltà. Rivista di araldica, genealogia e ordini cavallereschi", marzo-aprile 2012, pp. 163-172.
 
Dall'Archivio di Stato di Mantova provengono i resti di sigilli aderenti del conte Paolo da Montefeltro (+1399) e di sua moglie Thora Gonzaga, che permettono di ampliare la conoscenza araldica della casata dei signori di Urbino, in particolare per quel che concerne l'uso dei cimieri. Quest'ultimo particolare, unito ad altri, permette finalmente di attribuire, ad un personaggio esattamente collocabile nella genealogia dei conti di Urbino, la matrice di un sigillo conservata nella splendida collezione Corvisieri del Museo Nazionale di Palazzo Venezia a Roma (inv. 9529/503): si tratta di Ugolino, figlio di Paolo e di Thora.
 
(Ricostruzione del sigillo del conte Paolo, 1366)