mercoledì 23 gennaio 2008

Gli stemmi di Ravenna e di Fano.

Ho recentemente trasferito la mia residenza da Ravenna a Fano. Questo cambiamento mi ha sollecitato a ricordare in questo blog due miei interventi sugli stemmi di queste due città apparsi sul sito araldicacivica.it
Ecco dov'è possibile leggerli:

martedì 1 gennaio 2008

Tra Passionei e Brancaleoni: considerazioni araldiche sul cassone nuziale esposto al Palazzo ducale di Urbino.

Presso la Galleria Nazionale delle Marche è esposto un cassone nuziale (inv. 1990 M47) sul quale sono dipinti due emblemi che hanno naturalmente attirato l’attenzione di quanti si sono fino ad ora occupati del manufatto.


Sugli specchi centrali del fronte del cassone sono rappresentati due episodi della storia di Roma antica (la morte di Lucrezia e l’uccisione di Tarquinio) che, come ha rilevato Germano Mulazzi, sono resi con un gusto narrativo da favola cortese ancora in voga nella prima metà del Quattrocento (1). E’ infatti alla prima metà di quel secolo che viene datato questo manufatto, realizzato con stile spiccatamente tardogotico. Ad indirizzare gli storici dell’arte verso i primi decenni del Quattrocento, oltre allo stile dell’opera, ha certamente contribuito anche l’interpretazione dei due emblemi rappresentati negli specchi laterali del fronte, dei quali ci occuperemo in questa sede.
Ultimo ad occuparsi di questo cassone nuziale è stato il sovrintendente Paolo Dal Poggetto nella sua attesa guida alla Galleria Nazionale urbinate. Scrive Dal Poggetto: “la presenza degli stemmi Brancaleoni e Alidosi (leone rampante e scudo contrassegnato con stella) ci dà infatti la certezza che il cassone appartenne a Federico, dal momento che egli sposò in prime nozze nel 1437 (a soli quindici anni) Gentile Brancaleoni (…). Il cassone è con ogni probabilità databile 1415, anno delle nozze di Bartolomeo Brancaleoni e Giovanna Alidosi” (2).
Come vedremo, la certezza espressa da Dal Poggetto non trova però conferma nell’analisi araldica del manufatto. Del resto la vicenda della critica storico-artistica di questo manufatto rappresenta un chiaro esempio di come talune soluzioni, avanzate come ipotesi, vengano col tempo trasformate in certezze non fondate, e anche un esempio di come tra diverse ipotesi formulate possa esserne scelta una in particolare senza alcuna giustificazione se non, forse, la volontà magari inconscia di attribuire all’oggetto dell’ipotesi una vicenda storica aulica degna della più alta attenzione per via del collegamento a fatti o persone di chiara rinomanza (3).
Paolo Dal Poggetto cita come fonte la presentazione del restauro del manufatto redatta da Germano Mulazzi. Scriveva Mulazzi nel 1969: “dagli stemmi che reggono i due cavalieri raffigurati negli specchi ai lati della fronte, si è pensato che l’opera sia stata commissionata per le nozze di Bartolomeo Brancaleoni, signore di S. Angelo in Vado e Mercatello, e Giovanna Alidosi, nozze celebrate nel 1415 e da cui nacque Gentile, prima sposa di Federigo da Montefeltro” (4) ma aggiungeva: “l’ipotesi non può essere del tutto verificata, ma si può ugualmente ritenere indicativa la data: se non proprio il 1415, certo i primi decenni del XV secolo” (5).
Come si vede la certezza di Dal Poggetto risulta in realtà proposta come ipotesi da Mulazzi, un’ipotesi che l’Autore dichiarava non del tutto verificabile e che a sua volta aveva ripreso, da quanto scritto nel 1930 dal sovrintendente Luigi Serra: “due cavalieri che alzano gli stemmi degli sposi – leone rampante e scudo contrassegnato con stella – che si vorrebbero identificare l’uno per quello dei Brancaleoni, l’altro degli Alidosi o dei Passionei – non senza richiamare le nozze avvenute il 15 maggio 1415 fra Bartolomeo Brancaleoni, signore di S. Angelo in Vado e di Mercatello, e Giovanna Alidosi, dalle quali nacque Gentile, prima moglie del Duca Federico” (6).
Serra dunque proponeva due diverse ipotesi per l’attribuzione della coppia di stemmi:
a) Brancaleoni – Alidosi;
b) Brancaleoni - Passionei.
La seconda ipotesi, che come abbiamo visto è scomparsa dalla critica più recente, appare avvicinarsi al vero ed è un peccato che sia stata dimenticata.

I due cavalieri sono abbigliati con stile tipico della prima metà del Quattrocento, si pensi ai dipinti di Pisanello o al monumento funebre di Niccolò Mauruzi da Tolentino o alla rappresentazione del medesimo nella Battaglia di San Romano di Paolo Uccello:



indossano sì l’armatura, ma hanno il capo coperto da un importante berretto (7). Un cappello che troviamo rappresentato di frequente nella prima metà del Quattrocento, così nella Flagellazione di Piero della Francesca come anche negli affreschi della chiesa di San Domenico a Urbino (staccati e conservati presso il museo Albani di Urbino). Entrambi i cavalieri reggono con una mano l’asta di un vessillo bifido e con l’altro braccio tengono in mostra uno scudo a targa con tacca per la lancia (8). I cavalli sono invece coperti da una gualdrappa. Sullo scudo e sulla gualdrappa (forse in origine anche sul vessillo) ciascun cavaliere mostra la propria insegna.
Il cavaliere collocato alla sinistra araldica, verosimilmente recante le insegne della moglie (nell’ipotesi che si tratti effettivamente di un cassone nuziale) ha come insegna un leone rampante nero in campo oro.

Notiamo però, a questo proposito, come d’oro sia dipinto tutto il cassone e non solo il campo dello scudo o la gualdrappa del cavallo. Ad ogni modo siamo evidentemente di fronte ad un’arma araldica vera e propria. Nello scudo il leone occupa tutta la superficie, sulla gualdrappa la figura dell’animale è racchiusa entro una cornice mistilinea anch’essa di gusto tardogotico (9).
Questo stemma col leone è effettivamente quello di Bartolomeo Brancaleoni come si ritiene comunemente? Ricordiamo che quella del leone è la figura animale in assoluto più rappresentata in araldica. Un antico adagio affermava: “chi non ha armi porta un leone” (9), dunque affermare che quello dipinto sul cassone è lo stemma dei Brancaleoni (nello specifico di Bartolomeo) solo perché v’è raffigurato un leone appare un azzardo.
Anche alla prova degli smalti lo stemma non sembra potersi riferire immediatamente ai Brancaleoni. L’arma dei Brancaleoni era d’argento al leone d’azzurro, ben diversa, quindi, dalla nostra: d’oro al leone di nero (11). Si potrebbe sostenere che l’artista volle (o dovette) usare come smalti solo l’oro di copertura del manufatto ed il nero per le figure dell’intera rappresentazione; in questo caso potremmo anche ritenere si tratti di una rappresentazione evocativa di un’arma avente in realtà smalti diversi: nel caso dei Brancaleoni l’argento e l’azzurro.
In ogni caso, però, sembra impossibile sciogliere con certezza la soluzione del problema dell’attribuzione di questo stemma nel senso indicato fino ad ora dagli storici dell’arte, ma non solo. Se è vero che a Piobbico alcuni stemmi dei Brancaleoni mostrano nello scudo il solo leone (12), nella maggior parte dei casi il leone dei Brancaleoni è sempre accompagnato da altre figure araldiche verosimilmente utili a realizzare delle brisure (13). E’ accompagnato in capo, da una fascia diminuita di rosso, caricata di una croce d’argento (patente o ottagona) nel caso dei Brancaleoni di Piobbico;

oppure è caricato da una banda diminuita (di rosso) nel caso dei Brancaleoni di Casteldurante e di Sant’Angelo in Vado e Mercatello (14).
In particolare nello stemma scolpito sul sepolcro di Bartolomeo Brancaleoni del ramo Castel Durante, signore di Sant’Angelo in Vado e Mercatello, è ancora visibile il leone con la banda attraversante sul tutto (15).

Alla luce di tutto ciò siamo pertanto propensi ad escludere la validità dell’attribuzione dello stemma sul cassone al suocero di Federico da Montefeltro.

L’altro cavaliere, collocato alla destra araldica, dovrebbe mostrare le armi del marito. Certo questo non è lo stemma degli Alidosi costituito da un’aquila verde in campo d’oro, caricata di un giglio e accollata di una corona, entrambi del campo.

Ma oltre a ciò si coglie immediatamente il fatto che non ci troviamo di fronte ad un’arma araldica ma a qualcosa di diverso: ad una marca tipica degli operatori commerciali del Medioevo.


Questo emblema non è dunque uno scudo caricato di una stella (come scritto fino ad ora), ma il disegno di un cuore cimato da una croce di tipo patriarcale e diviso da linee che, nel caso di un’arma, potrebbero configurare un partito semitroncato con una stella di sei punte nella parte superiore del troncato 6bis Passionei marca .

Notiamo che questa marca è iscritta entro un cerchio e nella sua rappresentazione sulla gualdrappa del cavallo il campo tra il cerchio e la cornice mistilenea esterna è colorato di nero formando così una cornice polilobata assente nello scudo.
Con riguardo a questo marchio possiamo dire che giusta fu la seconda ipotesi attributiva formulata da Renato Serra che indicò i Passionei di Urbino quali titolari di quell’emblema.
Chi si rechi a Urbino a far visita al Rettore della locale Università degli Studi, presso palazzo Passionei-Paciotti in via Valerio 9, come io ho più volte fatto in questi anni per ragioni dei miei incarichi come Conservatore del Maximus Ordo Torricinorum, non potrà non notare una ricca serie di emblemi dipinti sul soffitto in legno della sala della segreteria del Magnifico.
Vi sono rappresentate numerose armi ed insegne: l’arma bandata dei Montefeltro, quella con la sola aquila, quella inquartata che unisce le prime due, quella inquartata alla quale è aggiunto il palo della Chiesa, scudi con le imprese della granata e dello scopino. Tutte queste sono riconducibili ai Montefeltro. Vi sono poi rappresentati anche lo stemma dei Passionei (d’oro all’albero d’ulivo di verde attraversato sul ronco da un cartiglio d’argento con il motto gloria in excelsi deo) e infine scudi col nostro marchio commerciale in due versioni: in una il marchio d’oro è collocato in un campo rosso, nell’altra il marchio nero è collocato in un campo d’oro.
La presenza delle numerose insegne dei Montefeltro può certo essere interpretata come un omaggio ai signori di Urbino (si pensi alla presenza dell’arma montefeltresca nel soffitto del portico di palazzo Odasi di Urbino),

mentre ovvia appare la presenza dello stemma dei padroni di casa. Come ci ricorda Franco Negroni (16), i Passionei esercitarono la mercatura e questo spiega la presenza del marchio in una delle sale più importanti del loro palazzo.
La presenza del palo della Chiesa nello stemma ducale indica che la decorazione del soffitto risale a non prima dell’agosto 1474, d’altronde Franco Negroni ci informa che il palazzo venne acquistato da Paolo di Guido di Paolo Passionei l’11 marzo 1474 (17). Possiamo allora ben immaginare che dopo l’acquisto il nuovo proprietario volle rinnovare l’edificio sfoggiando le proprie insegne e quelle del suo signore, per il quale svolgeva l’importante ufficio di amministratore di corte.
Il Passionei acquistò il palazzo dal conte Ugolino Bandi che per stemma aveva un leone caricato di due bande doppiomerlate, una sul collo e sulla coscia sinistra(18).

L’edificio restò di proprietà dei Passionei fino al 1568, quando fu oggetto di una singolare vendita a favore di Francesco Paciotti (19).
Nel 1744 il palazzo stava per divenire di proprietà della Fraternita di Piandelmercato, ma per l’opposizione di alcuni eredi quest’istituzione poté solamente goderne l’affitto (20). Sappiamo che il cassone venne acquistato dallo Stato nel 1915 da un’altra importante istituzione urbinate: la Congregazione di Carità.
Se dunque il marchio sembra ricondurre la vicenda di questo cassone ai Passionei, se questo cassone è effettivamente un cofano nuziale, ed infine, se il marchio e gli emblemi sono stati rappresentati ab origine sugli scudi e sulle gualdrappe, allora per l’individuazione del titolare dello stemma col leone si potrebbe scorrere l’albero genealogico dei Passionei.
Noi conosciamo due versioni di questo albero custodite presso la Biblioteca universitaria di Urbino (21).

Queste principiano, concretamente, dalla seconda metà del Trecento, un’epoca che potrebbe ben adattarsi alla ricerca del titolare dello stemma col leone rappresentato sul cassone. Purtroppo ai primi nomi maschili non sono abbinati i nomi delle consorti. Questi ultimi compaiono solo nella seconda metà del Quattrocento, un’epoca piuttosto tarda per lo stile del cassone. Va però notato che (se non abbiamo visto male) sia il cuore che il leone sono solamente dipinti e non lavorati nel cuoia come tutte le altre decorazioni del cassone (22). Per la nostra conoscenza del manufatto non possiamo nemmeno escludere che quelle figure siano state aggiunte (o sostituite ad altre) in epoca successiva a quella di realizzazione del cassone.
Va poi ricordato che la convenzione araldica di porre l’insegna del marito alla destra araldica potrebbe non essere stata rispettata in questo caso (23), quindi occorrerebbe verificare anche i consorti delle donne di casa Passionei, che nelle genealogie che abbiamo consultato non compaiono se non quinta generazione, nel Cinquecento inoltrato. Un indagine completa potrebbe essere effettuata attraverso l’esame degli atti rogati dai notai urbinati (matrimoni, costituzioni di dote, donazioni ecc.).
Dobbiamo però porci ulteriori domande. Assodato che nella seconda metà del Quattrocento i Passionei possedevano un’arma araldica, perché nel cassone rappresentarono una marca commerciale come insegna, piuttosto improbabile… diremmo, di un cavaliere? La risposta più ovvia potrebbe essere che al momento della realizzazione del cassone (alcuni decenni prima) i Passionei non avevano ancora uno stemma araldico, ma per vi della loro professione avevano un marchio di commercio. Ma questa affermazione risponde al vero? L’utilizzo di lettere o cartigli dentro lo scudo è una caratteristica tutt’altro che comune in araldica, specie nell’araldica medievale. Forse, la presenza del cartiglio nello stemma dei Passionei potrebbe suggerire un’adozione tarda dello stemma, se di stemma originario si tratta. Ricordiamo che una delle leggende relative alla nascita della famiglia Passionei era quella che voleva essere stato capostipite della casata uno dei pastori presenti alla nascita di Gesù (leggenda alla quale si deve con ogni probabilità la presenza del cartiglio con al dicitura “gloria in excelsi deo”) sorta quando la famiglia Passionei ebbe la necessità di nobilitare la propria ascendenza secondo uno stile leggendario comune a molte casate.


NOTE
(1) G. Mulazzi, Mostra di opere d’arte restaurate, XII settimana dei musei 1969, STEU Urbino 1969, pp. 54 e 55. L’Autore sottolinea tra l’altro come “i due episodi sono molto cari alla storia moralizzata del Medio Evo, allusione raffinata e insieme ingenua alla virtù e ai doveri coniugali”.
(2) P. Dal Poggetto, La Galleria Nazionale delle Marche e le altre collezioni nel Palazzo ducale di Urbino, Roma, 2003, p. 62.
(3) Nel nostro caso il riferimento al più noto dei Montefeltro, Federico (1422-1482).
(4) G. Mulazzi, Mostra di opere d’arte restaurate, XII settimana dei musei 1969, cit., p. 54.
(5) Ibidem.
(6) L. Serra, Il Palazzo Ducale e la Galleria Nazionale di Urbino, Roma, 1930, p. 32.
(7) In ambito urbinate troviamo questo genere di copricapo negli affreschi della chiesa di San Domenico di Urbino eseguiti da Antonio Alberti da Ferrara intorno al terzo decennio del Quattrocento, ora al Museo Diocesano Albani, o nella tavola della Flagellazione di Piero della Francesca della metà del Quattrocento.
(8) Si noti come il cavaliere di sinistra (destra araldica) imbracci lo scudo rivolto verso destra in direzione del centro del cassone per ragioni simmetria.
(9) Cornici analoghe racchiudono le rappresentazioni degli scudi di Guidantonio da Montefeltro (+1443) e del cugino Antonio da Montefeltro (+1448) sopra il portale di palazzo Bonaventura ad Urbino.
(10) M. Pastoreau, Medioevo simbolico, Laterza, Roma - Bari, 2007, p. 43.
(11) A fronte degli innumerevoli stemmi dei Brancaleoni scolpiti nella pietra ed ormai privi di smalti, si può ammirare il leone azzurro in campo d’argento negli affreschi che decorano la Sala greca del palazzo di Piobbico, realizzati per volere di Antonio Brancaleoni nel 1589.
(12) Si pensi allo stemma scolpito murato nei pressi di porta di Via Cupa a Piobbico, o allo stemma col solo leone nella serie del fregio araldico che decora la cappella di San Carlo Borromeo nel palazzo dei Brancaleoni di Piobbico.
(13) Il consorzio gentilizio dei Brancaleoni di Castel Durante si divise per stirpi nel 1413: Bartolomeo ebbe i feudi di Sant’Angelo in Vado e di Mercatello col titolo di Rettore della Massa Trabaria, i cugini Galeotto e Alberico ebbero i domini di Castel Durante, Sassocorvaro e di altri che tennero fino al 1424 e fino al 1430 quando Guidantonio da Montefeltro li tolse loro per ordine di Martino V divenendo di lì a poco titolare degli stessi col titolo di conte, sulla vicenda V. Lanciarini, Il Tiferno Metaurense e la Provincia di Massa Trabaria, (rist. an.), S. Angelo in Vado, 1988, pp. 301-302, 374-375 e380-383. La divisione non dette luogo ad alcuna brisura a noi nota. (14) Sull’arma dei Brancaleoni si veda quanto asserito nel sec. XVI da Costanzo Felici in D. Bischi, I Brancaleoni di Piobbico, Bruno Ghigi Editore, Rimini, 1982, pp. 62 e 63; nonché gli stemmi riprodotto dall’Henninges nel 1598, ivi, p. 33. Del tutto fuorviante appare poi la definizione del “leon d’oro” che tanta fortuna continua ad avere, ma che (a dispetto dello stemma che decora una sala del palazzo di Piobbico, non ha nulla a che fare con lo stemma dei Brancaleoni, si veda a questo per esempio S. Tacconi, I conti Brancaleoni, Piobbico, il Castello, STEU, Urbino, 1958, p. 9. Appare evidente come il tema dell’araldica dei Brancaleoni debba essere ancora studiato con attenzione. La presenza della fascia in capo o della banda negli stemmi dei Brancaleoni ci induce a ritenere probabile l’esistenza di uno stemma più antico e unico, precedente le divisioni della casata, costituito dal solo leone d’azzurro in campo d’argento. Gli stemmi dei diversi rami della famiglia fanno bella mostra di loro nel citato fregio nella cappella di San Carlo Borromeo nel Palazzo Brancaleoni di Piobbico.
(15) La magnifica arca tombale in stile tardogotico è murata piuttosto in alto nella contro facciata della Chiesa di San Francesco a Mercatello sul Metauro. Lo stemma completo di leone accovacciato con cresta di drago e cartiglio si trova sul coperchio e appare difficilmente visibile, ma il leone attraversato dalla banda si trova anche nei due specchi laterali del sarcofago, ben visibili all’osservatore. Non appartiene assolutamente a Gentile Brancaleoni e a suo padre Bartolomeo lo stemma attribuitole da tal Bartolomeo Ceccarini di Urbino nel ritratto immaginario della contessa realizzato nel 1796 e pubblicato in L. Ceccarini, Non Mai, Accademia Raffaello, Urbino, 2002, tavola fuori testo. Il disegnatore, non solo sembrerebbe aver invertito gli smalti dell’arma col leone, ma ha aggiunto un vero e proprio capo di Malta, improprio per il ramo di Piobbico, ma assolutamente assente in quello di Castel Durante – Mercatello – Sant’Angelo in Vado al quale appartenevano Gentile e Bartolomeo.
(16) F. Negroni, Appunti su alcuni palazzi e case di Urbino, Accademia Raffaello, Urbino, 2005, p. 54, “Questo palazzo nel suo nobile aspetto rinascimentale, pur con ritocchi successivi, deve la sua origine a Paolo di Guido Passionei, mercante e amministratore di corte nell’ultimo trentennio del 1400.
(17) F. Negroni, Appunti su alcuni palazzi e case di Urbino, cit., p. 55. Come ricorda l’Autore il palazzo non era dei Montefeltro e i Passionei non l’acquistarono da loro, diversamente da quanto altri studiosi hanno affermato, si veda per esempio F. Mazzini, I mattoni e le pietre di Urbino, Cassa di Risparmio di Pesaro, Pesaro, 1982, p. 291.
(18) Si veda lo stemma scolpito custodito nell’ex cappella Paltroni in San Francesco a Urbino.
(19) F. Negroni, Appunti su alcuni palazzi e case di Urbino, cit., pp. 55 e 56.
(20) Ibidem.
(21) Biblioteca Universitaria di Urbino, Fondo del Comune, busta 173, fasc. 5 (5i), Passionei, cc. 1-8.
(22) Se si può applicare al caso dei cassoni nuziali, quello dei codici manoscritti, ricordiamo quanto affermato abbiamo letto in M. Peruzzi, Cultura potere immagine. La biblioteca di Federico di Montefeltro, Accademia Raffaello, Urbino, 2004, p. 72: “a Firenze (…) a causa della densità di richieste e del commercio librario, si tendeva a decorare il codice in modo che potesse adattarsi a qualsiasi compratore, lasciando vuoto lo spazio destinato a ricevere lo stemma gentilizio, che veniva dipinto a vendita avvenuta”.
(23) E’ noto un altro fronte di cassone ritenuto legato alle vicende di Federico da Montefeltro facente parte di una collezione privata. le decorazioni principali consistono in tre medaglioni raffiguranti a sinistra un busto femminile di profilo, al centro un’aquila coronata a volo abbassato, a destra un busto maschile di profilo. entrambe i personaggi guardano verso il centro e nel profilo maschile si riconoscono i tratti caratteristici di Federico da Montefeltro. Tra il medaglione femminile e l’aquila è collocato uno scudo a mandorla con l’arma degli Sforza (quindi il profilo femminile è quello di Battista Sforza che Federico sposò nel 1460, tra il medaglione maschile e l’aquila è collocato uno scudo a mandorla con l’arma dei Montefeltro… ma entrambi questi stemmi risultano rivolti e le bande divengono sbarre (si noti tra l’altro che si tratta di tre sbarre d’oro in campo azzurro, una configurazione sospetta d’essere ben più tarda). Il tutto appare disposto in modo curioso. Araldicamente parlando l’arma del marito e verosimilmente la sua effige avrebbe dovuto trovare posto a sinistra (destra araldica) e viceversa la moglie. L’unica spiegazione della diversa posizione può derivare dalla necessità di rappresentare Federico col solito profilo. Ma perché invertire gli stemmi? Per ragioni di simmetria? In questo contesto trasformare le bande dei Montefeltro in sbarre non avrebbe molto senso. Se decidessimo di invertire la figura ci troveremmo d’incanto con la moglie e il marito al posto giusto e con le armi correttamente orientate… l’unica a farne le spese sarebbe l’aquila che si troverebbe ad essere rivolta. L’immagine del manufatto è stata pubblicata in M. Bonvini Mazzanti, Battista Sforza Montefeltro. Una “principessa” nel Rinascimento italiano, Quattroventi, Urbino, 1994, tav. f. t.; si vedano sull’argomento: M. Trionfi Honorati, Un cassone di pastiglia del Quattrocento, in “Antichità viva”, X, 4 (1971), pp. 52 e 53 e W. Fontana, Affreschi di Paolo Uccello nel Palazzo Ducale di Urbino, in AA.VV., Federico di Montefeltro. Lo Stato, le arti, la cultura, Bulzoni Editore, Roma, 1986, vol. 3, pp. 147 e 148.


Illustrazioni:
1 - Cassone nuziale, Galleria Nazionale delle Marche di Urbino (divieto di riproduzione) foto dell'Autore.
2 - Paolo Uccello, Battaglia di San Romano, particolare, dal sito http://it.wikipedia.org/wiki/Immagine:Paolo_Uccello_031.jpg
3 - Cassone nuziale, particolare, Galleria Nazionale delle Marche di Urbino (divieto di riproduzione) foto dell'Autore.
4 - Stemma dei Brancaleoni di Piobbico riproduzione dell'Autore tratta dagli affreschi della Camera Greca di Palazzo Brancaleoni di Piobbico (1585).
5 e 6 - Sepolcro di Bartolomeo Brancaleoni, foto tratte dal sito del Museo del Metauro: http://www.museodelmetauro.it/?q=it/blog/4
7 - Stemma degli Alidosi (dalle tavole del Litta?) dal sito http://sigils.ru/heraldic/blason.html
8 - Marca dei Pasionei, disegno dell'Autore.
9 - Soffitto ligneo dipinto del portico di Palazzo Odasi di Urbino, foto dell'Autore.
10 - Stemma dei Bandi, riproduzione dell'Autore, dal sepolcro del conte Ugolino Bandi nella Chiesa di San Francesco di Urbino.
11 - Genealogia dei Passionei, Biblioteca Universitaria di Urbino, Fondo del Comune, Busta 173, fasc. 5 (5i), foto dell'Autore.