
venerdì 20 giugno 2008
Stemmi dei della Faggiola e dei Prefetti di Vico

venerdì 13 giugno 2008
Il mio stemma nell'Armoriale della Società Svizzera di Araldica
Il primo incaricato fu Paul Boesch e in seguito Everilda de Fels (1969), Gastone Cambin (1979), Fritz Brunner (1993) e dal 2004 Rolf Kälin.
In occasione del rinovo d'iscrizione per il 2008 ho deciso di chiedere l'inserimento del mio stemma, sulle cui origini rimando al post Presentazione.
Rolf Kälin ha così realizzato questa meravigliosa rappresentazione del mio stemma (Società Svizzera di Araldica).
Colgo l'occasione per ringraziare il signor Kälin per il suo lavoro e pubblicamente complimentarmi con lui.
domenica 11 maggio 2008
San Crescentino patrono di Urbino. Iconografia e attributi araldici.
Nel settembre 2003 si è tenuto a Città di Castello un importante convegno su san Crescenziano i cui atti sono stati editi, nel 2005, a cura di Andrea Czortek e di Pierluigi Licciardello.
San Crescenziano è uno dei patroni di Città di Castello, località nei pressi della quale sarebbe stato martirizzato intorno all’anno 287. Nel corso del convegno tifernate è stato sottolineato il fatto che, se l’origine del culto nacque nell’alta valle del Tevere, “non è a Città di Castello che il santo troverà il suo centro cultuale, svolgendo un ruolo storicamente significativo, ma ad Urbino, che dal 1068 lo elegge a patrono protettore”, e come in questa città “il nuovo culto si impone accanto a quello della Madonna e di San Sergio, santo militare introdotto ad Urbino forse in epoca bizantina, proveniente dall’area ravennate” (Licciardello, 2005, pp. 118 e 119).
E’ a tutti noto che ad Urbino San Crescenziano acquisì il nome di San Crescentino per ragioni ignote. A fronte dalla diversità onomastica si è accompagnata forse una qualche diversità iconografica? A giudicare dall’intervento di Mirko Santanicchia al convegno tifernate sembrerebbe di no, ma è proprio la ricognizione iconografica condotta da Santanicchia ad aver sollecitato questa nostra indagine che offre un ulteriore contributo alla conoscenza della tradizione di san Crescentino soffermandosi sull’aspetto iconografico ed in particolare su quello araldico.
Rappresentazione di un santo militare.
Fin dalla prima testimonianza iconografica nota, risalente agli anni a cavallo tra Due e Trecento, la raffigurazione di San Crescentino è quella di un cavaliere che in sella al suo destriero è intento a sconfiggere un drago (Santanicchia, 2005, pp. 175, 177 e 178). Eppure, da quanto sembra emergere dalle ricerche fin qui svolte, la prima attestazione biografica della leggenda del drago risale solo al 1567, contenuta in un opera voluta dall’arcivescovo urbinate Felice Tiranni. Appare perciò evidente che lo scopo del Tiranni fu quello di riprendere una tradizione ben più antica ormai consolidata (Licciardello, 2005, pp. 128 e129; Santanicchia, 2005, p. 176).
Al primo modello rappresentativo se n’è successivamente affiancato un secondo. Il santo è ritto in piedi e senza il cavallo e il drago giace a terra morente. Notiamo come nel primo modello iconografico il drago è trafitto dalla lancia. Non così nel secondo modello, laddove il santo mostra a Dio le spoglie del drago sconfitto (Santanicchia, 2005, p. 182). In alcuni casi san Crescentino è raffigurato intento a calpestare il drago esanime come l’Immacolata calpesta il serpente.
San Crescentino era un soldato romano ed infatti è costantemente rappresentato in armi, con indosso prevalentemente un’armatura alla moda. Così se nel Quattrocento indossa armature da cavaliere di quell’epoca (simili a quella indossata dal duca Federico nella cosiddetta Pala di Brera), a partire dal Cinquecento egli indossa una lorica di stampo romano. Questo secondo tipo di armatura rispondeva meglio alla rappresentazione ideale di un soldato del III secolo, ma in realtà altro non era che un nuovo modello di armatura alla moda. Si pensi all’armatura di Guidobaldo II Della Rovere realizzata da Bartolomeo Campi nel 1546 (fig. 2) o alle ben note raffigurazioni dei principi medicei scolpite da Michelangelo.


Se nelle prime rappresentazioni il santo appare a capo scoperto, a partire dal Rinascimento è per lo più rappresentato con un elmo sul capo. Secondo Santanicchia questa novità dovrebbe essere stata introdotta dopo il 1520, probabilmente in conseguenza del ritrovamento del presunto elmo di Crescenziano avvenuta nel 1524 (Santanicchia, 2005, p. 183). Ma dobbiamo constatare che il santo indossa l’elmo già in una moneta di Guidobaldo da Montefeltro (fig.3) coniata tra il 1482 e il 1508 (Cavicchi, 2001, p. 44, n. 28) (fig. 3), e che forse un elmo è presente anche nell’immagine di un sigillo della città di Urbino impresso in una lettera del 12 agosto 1502 (ASRSM, Carteggio dei Capitani reggenti, Busta 90).


A proposito dell’elmo, notiamo che si tratta sempre di una borgognotta, un tipo di elmo alla moda che richiama alla lontana un elmo romano, in linea con l’uso della lorica.
In generale il mutamento dell’abito del santo è dunque conseguente al mutamento della moda, al recupero dello stile antico per le armature da parata che hanno ormai sostituito le vecchie armature da torneo.
San Crescentino e san Giorgio.
Santanicchia ha evidenziato il fatto che la raffigurazione di San Crescentino a cavallo richiama decisamente quella di San Giorgio che uccide il drago: “nel determinare la restituzione iconografica dell’evento, deve aver pesantemente influito la fama di san Giorgio, alla cui vicenda il comune elemento del drago rinviava in maniera fin troppo invitante” (Santanicchia, 2005, p. 176).
Il racconto di San Giorgio che uccide il drago per salvare la principessa risale solo ai tempi delle crociate e fu originato per via “di una errata interpretazione di un’immagine di Costantino. Da ciò il suo attributo frequente, la croce rossa in campo bianco”, la fama del santo ebbe poi ampia diffusione, intorno alla metà del Duecento, con la Leggenda Aurea di Jacopo da Varazze (m. 1298) (Licciardello, 2005, p. 132; Santanicchia, 2005, pp. 176 e 177).
Santanicchia ci mostra anche l’immagine di san Giorgio scolpita nella lunetta del portale del duomo di Ferrara tra il 1135 e il 1140 (fig. 8)
Dunque secondo Santanicchia l’influenza iconografica di san Giorgio su san Crescentino fu rilevante e “perdurò, ingenerando talvolta confusione”; ma, sempre secondo questo studioso, “ciò che non pare sia mai entrato nel novero degli attributi di Crescenziano, è invece proprio il vessillo crucesignato, nonostante le fonti ne facciano esplicita menzione: nel testo cinquecentesco recensito dai Bollandisti c’è un preciso riferimento ad un segno di Cristo ricevuto dal soldato, Christi signaculo insignitis. Non è detto che fosse presente in questa forma anche nella versione più antica della passio, e non è del resto scontata una lettura troppo letterale dell’espressione, ma è raro che tali spunti non vengano colti nella trasposizione iconografica; viene a questo punto da domandarsi se fu omesso con lo scopo di limitare la confusione con san Giorgio, che invece mostra sovente questo attributo" (Santanicchia, 2005, p. 177).
Premesso che esistono importanti rappresentazioni di san Giorgio senza alcun attributo araldico, il punto, l’oggetto di questa nostra disquisizione è questo: non è esatto affermare che san Crescentino (ovvero san Crescenziano) non fu mai rappresentato con l’attributo araldico della croce.
Infatti la presenza di questo emblema si riscontra nei sigilli del Comune di Urbino che Mirko Santanicchia non ha preso in considerazione nel pur ampio apparato iconografico analizzato nel suo contributo al convegno tifernate.
Nei sigilli dei comuni, nel Medioevo e nel Rinascimento, sono stati rappresentati spesso i santi patroni, e Urbino non fece eccezione, anzi. A parte la descrizione di un sigillo del 1232 nel quale doveva vedersi rappresentata un’aquila (Tonini, 1862, pp. 497 e 498), tutti i sigilli noti del Comune di Urbino vedono rappresentato san Crescentino a cavallo nell’atto di uccidere il drago.
Tra le impronte sigillari che ho potuto vedere durante le mie ricerche, molte mostrano il cavaliere con scudo e vessillo difficilmente leggibili, invece, altre, ci mostrano con chiarezza la presenza di uno scudo e di un vessillo crociato. Nel sigillo apposto in una lettera del 28 marzo 1507 si può rilevare, seppure a fatica, la croce sul vessillo, mentre è praticamente impossibile leggere il contenuto del piccolo scudo arrotondato imbracciato dal santo (ASRSM, Carteggio dei Capitani reggenti, busta 90, lettera del 28 marzo 1507) (fig. 9).
Allo stato delle nostre conoscenze attuali non sapremmo dire quali erano gli smalti di queste insegne araldiche. Probabilmente erano gli stessi delle insegne di san Giorgio. Del resto la croce rossa in campo argento è una tipica rappresentazione dell’insegna di Cristo (fig. 10).

Il sigillo apposto sulla lettera del 1507, ma anche quello apposto sulla lettera del 1568 (a meno che quest’ultimo non fosse di recentissima realizzazione) dimostrano che la presenza degli attributi araldici crociati precedono l’opera di Tiranni, e non ne sono stati una conseguenza. L’estensore della biografia del 1567 si è dunque rifatto ad esempi iconografici preesistenti. Ma quanto antichi?
Purtroppo non ci siamo imbattuti in sigilli agiografici del Comune di Urbino precedenti il 1502, e per le fonti di carattere più spiccatamente religioso vale il discorso fatto da Santanicchia.
Ma proprio tra i documenti iconografici esaminati da Santanicchia dobbiamo evidenziare la probabile presenza di un vessillo in epoca ben più antica. Il documento in questione è la miniatura che decora l’antifonario n. 9 dell’Archivio capitolare del duomo di Urbino, datato 1348, opera di Niccolò Saraceno da Bagnacavallo (fig. 11).
Se in quest’opera non c’è il racconto della leggenda del drago, la miniatura parla da sé: san Crescentino a cavallo è intento a trafiggere il drago.
Opportunamente scontornata questa immagine del santo è stata posta nella copertina del volume degli atti di cui ci stiamo occupando (fig. 12). Già da questa immagine si evidenzia un curioso ispessimento della parte terminale rivolta verso l’alto della lancia. Qual è la ragione di quell’ispessimento?

Osservando la miniatura notiamo che la parte del campo che sovrasta la testa del santo mostra una lacuna di pigmento che sembra avere la forma di un lungo vessillo triangolare ondeggiante verso destra. La lacuna di pigmento si vede anche nella sottostante figura del drago.
Crediamo che non si possa escludere che in luogo di quella lacuna vi fosse rappresentato proprio un vessillo del quale è rimasta paradossalmente traccia per via della caduta del colore. In questo caso l’ispessimento dell’asta della lancia altro non rappresentierebbe che l’innesto del drappo sulla stessa.
La presenza del vessillo nella miniatura del 1348 andrebbe verificata con adeguate analisi; resta tuttavia il fatto che non potremmo comunque sapere di quale vessillo si doveva trattare: se il vessillo crociato attestato più tardi, o qualche altro vessillo.
Per inciso possiamo notare che nella miniatura del 1348 il santo non indossa l’armatura ma una veste azzurra e un mantello rosso foderato di vaio. L’assenza dell’armatura non toglie alcunché alla caratteristica di cavaliere. Infatti anche il conte Galasso da Montefeltro (morto proprio nel 1348) venne rappresentato in una miniatura con indosso una veste e un manto, dotato dei caratteristici speroni, con la spada al cingolo e in pugno una mazza d’arme (Franceschini, 1970) (fig. 13).

Dunque, come abbiamo visto, non è esatto quanto affermato da Santanicchia: “ciò che non pare sia mai entrato nel novero degli attributi di Crescenziano, è invece proprio il vessillo crucesignato”. Le fonti iconografiche urbinati attestano anche l’uso di tale insegna. Quanto alla domanda che pone l’Autore: “se fu omesso con lo scopo di limitare la confusione con san Giorgio, che invece mostra sovente questo attributo” (Santanicchia, 2005, p. 177), si deve rilevare che l’omissione o la presenza di questa insegna risulta un difficile fattore discriminante nell’individuazione di un santo piuttosto che l’altro. Sia perché molti san Giorgio non inalberano il vessillo e non imbracciano lo scudo crociato, contrariamente alla più classica rappresentazione, sia perché anche san Crescentino venne rappresentato con quelle insegne.
Il tema della confusione tra i santi Giorgio e Crescentino torna, a me pare prepotentemente, nelle importanti notizie che Franco Negroni ha tratto dagli archivi notarili di Urbino.
“8 settembre 1329 […] Rog. Benveduto notaio nella piazza del Comune, dove è la Maestade di S. Giorgio avanti alla stazione di Alessandro notaio […]”; “1 gennaio 1408 […] in Civitate Urbini in platea magna ipsius Civitatis et prope trasanale positum ante maiestatem sancti Criscentini ubi priores populi dicte Civitatis iurant officium prioratus dicte Civitatis”; “18 ottobre 1417 […] Urbini in trazanali Ecclesie maioris Katredalis Civitatis predicte ubi posita est figura Georgii aliis armigeris, cui trazanali a primo latere est dicta ecclesia […]”; “29 giugno 1420 […] Urbini et in trazanali ecclesie Katredalis Civitatis Urbini ubi sunt picture hominum armigerum et sancti Georgii”; “6 novembre 1428 […] Urbini in trazanali maioris ecclesie ubi et quo daur iuramentum prioribus iuxta ipsam ecclesiam, plateam et alia latera […]” (Negroni, 1993, p. 25 nota 13).
I priori del popolo della città di Urbino, nell’atto di assumere il mandato, giuravano d’innanzi all’immagine maestà di San Crescentino. Questo dipinto si trovava nella piazza grande sotto il portico del duomo. Sempre sotto il portico del duomo queste fonti attestano la presenza di un immagine di San Giorgio con altri armigeri. Due maestà con santi pressoché identici, possibile?
A questo proposito Franco Negroni ha scritto: “Sicuramente tra i santi dipinti nella loggia del Duomo non mancava S. Giorgio, ma siamo certi che la figura preminente era quella di S. Crescentino, che per la strettissima somiglianza iconografica con quella di S. Giorgio, ai notai non proprio urbinati poteva essere motivo di equivoco” (Negroni, 1993, p. 25 nota 13). Erano dunque rappresentati entrambi i santi? Oppure qualche notaio confuse sbrigativamente e incredibilmente san Crescentino per san Giorgio? In questo secondo caso il tema della confusione ricordato da Santanicchia (Santanicchia, 2005, p. 177) sembrerebbe trovare applicazione concreta.
In tempi decisamente più recenti anche Pietro Sella, autore della rinomata edizione della raccolta I sigilli dell’Archivio Vaticano, così scriveva a proposito di un sigillo del Comune di Urbino del 1735: “Scudo sormontato da una corona sorretta da due angeli: San Giorgio che trafigge il drago; lo scudo di San Giorgio è a due bande” (Sella, 1946, II, p. 281). In questo caso a confondere Sella non ci sono gli attributi araldici, ma la semplice figura del santo col drago, visto che egli stesso annota che lo scudo del santo è a due bande e non crociato. Il sigillo descritto da Sella deve essere stato quello che si trova ancora in un documento del 1722 custodito nella biblioteca universitaria di Urbino (BUU, Fondo del Comune, Busta 170, fasc. 1, c. 84).
Ad integrazione dell’analisi delle fonti iconografiche esaminate nel convegno di Città di Castello, devo confermare il giudizio dato da Santanicchia sull’attendibilità delle xilografie dei sigilli dei vescovi urbinati pubblicate da Bramante Ligi nel 1953. Esse sono, in effetti, piacevoli interpretazioni artistiche degli originali che certo “non possono costituire una fonte iconografica attendibile in tutti i particolari” (Santanicchia, 2005, p. 181).
Un esempio dell’inattendibilità viene proprio dal sigillo del vescovo urbinate Bartolomeo Carusi (1347-1379) citato da Santanicchia in quanto contenente l’immagine del patrono di Urbino (Santanicchia, 2005, p. 181, Ligi, 1953, p. 69).
Grazie all’autorizzazione del Priore della Confraternita del Corpus Domini di Urbino, dott. Giuseppe Cucco, ho potuto esaminare il sigillo del vescovo Carusi appeso ad una pergamena datata 16 luglio 1348 (ACDU, pergamena n. 1).
Ebbene il sigillo mandorla è diviso in tre registri: quello superiore vede rappresentata la Vergine, quello centrale mostra san Crescentino a cavallo che uccide il drago con la lancia, mentre quello inferiore è in gran parte mancante e non ci è permesso di capire che cosa potesse esservi rappresentato. Forse l’immagine del vescovo orante, forse lo stemma del prelato? La xilografia pubblicata da Ligi tralascia completamente il registro inferiore, come se non esistesse. In più colloca il santo e in drago in posizioni molto diverse dell’originale. Nell’immagine pubblicata da Ligi il cavaliere ha l’elmo, in quello effettivamente rappresentato nel sigillo si individua una sorta di copricapo ma non possiamo dire con certezza se si tratti di un elmo. In entrambe le rappresentazioni il cavaliere non imbraccia uno scudo, quanto al vessillo, l’impronta sigillare non permette stabilirne la presenza o meno, mentre è completamente assente nella xilografia.
L’Autore cita anche un altro sigillo vescovile contenente l’immagine di san Crescentino, quello di Oddone Colonna (1380-1408), anch’esso pubblicato in xilografia da Ligi (Santanicchia, 2005, p. 181; Ligi, 1953). L’immagine pubblicata da Ligi mostra il santo con l’elmo, senza scudo e senza vessillo. Come sarà in realtà il sigillo appeso alla pergamena n. 7 dell’Archivio S. Croce di Urbino, datata 7 agosto 1406?
Carusi e Colonna furono vescovi negli anni del dominio di Antonio da Montefeltro (1375-1404), al quale è spesso attribuita una moneta citata anche da Licciardello e Santanicchia per via della rappresentazione del busto di san Crescentino (Licciardello, 2005, p. 126; Santanicchia, 2005, p. 181). Va detto però che questa moneta è stata da tempo attribuita al figlio di Antonio, il conte Guidantonio da Montefeltro (1404-1443) (Cavicchi, 2001, p. 33, n. 4) (fig. 14). Nella riproduzione al tratto di questa moneta pubblicata da Reposati nel 1772, il santo in armatura posto di fronte (che in effetti sembra essere a cavallo) impugna la lancia dotata di un vessillo bifido senza alcuna figura (Reposati, 1772, p. 125) (fig. 15).


Nella monetazione dei signori di Urbino si trovano anche altre rappresentazioni di San Crescentino.
In due monete di Guidobaldo (1482-1508): in una il santo è a cavallo, nell’altra il santo è appiedato, ma come si è visto in entrambi i casi l’asta della lancia ha un vessillo, purtroppo illeggibile (Cavicchi, 2001, p. 44, nn. 27 e 28).
Altre monete con san Crescentino a cavallo vennero coniate sotto tutti i duchi rovereschi tra il 1508 e il 1631 (Cavicchi, 2001, p. 59, n. 64, p. 60, nn. 65 e 66, p. 81, n. 121, p. 82, nn. 122, 123 e 124, p. 122, n. 224).

“Per antica tradizione si ha che gli urbinati, ogni volta che contro i nemici loro hanno spiegato lo stendardo del Gloriosissimo Martire s. Crescentino lor avvocato habbiano conseguite meravigliose vittorie” (Santanicchia, 2005, p. 181). Questo è quanto venne scritto nel 1567 nell’opera commissionata dall’arcivescovo Tiranni, e al di là del pomposo linguaggio, è indubbio che il santo patrono non fu solo un’icona ad uso religioso. Come si è detto l’immagine del santo divenne (come è accaduto spessissimo) parte del patrimonio emblematico della comunità. Si è visto il caso dei sigilli comunali in uso fino a pochi secoli or sono, ma appare con tutta evidenza dallo statuto della Città di Urbino del 1559 nel quale è prescritto il passaggio delle chiavi, del sigillo e del gonfalone al momento dell’insediamento del nuovo Gonfaloniere e dove il gonfalone è descritto “vexillu Sancti Crescentini” (BOP, Statuta Civitatis Urbini, 1959, cc. 4v e 6v). Ma lo si può vedere anche nella notizia riportata da Franco Negroni circa la commissione (datata 1509) a Timoteo Viti e Girolamo Genga per la realizzazione di un nuovo vessillo comunale in seta rossa: “vexillum pro dicta Comunitate cum imagine sancti Crescentini advocati et patroni huius nostrae civitatis ad utroque latere dicti vexilli super equo cum dracone sub pedibus dicti equi et aliis requisitis et cum arma dictae Communitatis deauratis et com aliis fulcimentis debitis ad eorum perfectionem infra terminum duorum mensium” (Negroni, 1993, p. 14 e 15, nota 9).
Ritengo infatti che in quella rappresentazione il santo patrono di Urbino inalberi l’arma della comunità (“cum arma dictae Communitatis”) e non propriamente l’arma dei signori. Quet’arma cittadina sarebbe stata mutuata dai signori in circostanze a noi ancora ignote, verosimilmente tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento.
Lo stemma di Urbino era ormai quello antico dei Montefeltro, mentre questi ultimi usavano prevalentemente (ma non esclusivamente) quello inquartato fin dalla prima metà del Quattrocento. Che lo stemma di Urbino fosse ormai quello bandato è dimostrato, tra l'altro, dal bel sigillo del Collegio dei Dottori della Città di Urbino appeso ad una pergamena di laurea del 1588 (F. Farina, 2005, pp. 86 e 169) (fig. 18).
(ASRSM) Archivio dello Stato della Repubblica di San Marino, Carteggio dei Capitani reggenti.
(ASP-SU) Archivio di Stato di Pesaro, Sezione di Urbino.
(ACDU) Archivio Corpus Domini di Urbino, Pergamene.
(BUU) Biblioteca Universitaria di Urbino, Fondo del Comune.
(BOP) Biblioteca Oliveriana Pesaro, Statuta Civitatis Urbini.
Bibliografia
Cavicchi, 2001 - A. Cavicchi, Le monete del Ducato d’Urbino, Associazione Pro Urbino, Urbino, 2001.
Licciardello, 2005 - P. Licciardello, Culto e agiografia di san Crescenziano da Città di Castello a Urbino, in A. Czortek e P. Licciardello (a cura di), San Crescentino di Città di Castello, Diocesi di Città di Castello, Città di Castello, 2005.
Farina, 2005 - F. Farina (a cura di), Honor & meritus. Diplomi di Laurea dal XV al XX secolo, Panozzo Editore, Rimini, 2005.
Negroni, 1993 - F. Negroni, Il Duomo di Urbino, Accademia Raffaello, Urbino, 1993.
Reposati, 1772 - R. Reposati, Della Zecca di Gubbio, vol. I, Bologna, 1772.
Santanicchia, 2005 - M. Santanicchia, L’iconografia di san Crescenziano, in A. Czortek e P. Licciardello (a cura di), San Crescentino di Città di Castello, Diocesi di Città di Castello, Città di Castello, 2005.
Sella, 1946 - P. Sella, I sigilli dell’Archivio Vaticano, vol. II, Città del Vaticano, 1946.
Tonini, 1862 - L. Tonini, Della storia civile e sacra riminese, Rimini, 1862.
sabato 15 marzo 2008
Ornatissimo Codice. La Biblioteca di Federico da Montefeltro
lunedì 10 marzo 2008
5.000 visite, grazie!
sabato 1 marzo 2008
In ricordo di Filiberto
martedì 26 febbraio 2008
Ciao Filiberto
Filiberto era il responsabile della Biblioteca Ubaldina di Piandimeleto ed è stato uno degli ideatori della Sala di araldica del Museo del Castello dei conti Oliva.
Filiberto era un amico, una delle persone più care che ho conosciuto in questi ultimi anni. Filiberto mi ha conivolto nel suo progetto per la Sala di araldica con la passione che lo contraddistingueva, pronto a ideare e a realizzare.
La sua scomparsa mi addolora immensamente e credo che lascerà un vuoto incolmabile nelle persone che l'hanno conosciuto e che senza dubbio non hanno potuto che volergli bene, come me.
Un vuoto, difficilmente colmabile, ha senza dubbio lasciato a Piandimeleto.
Ciao Filiberto.
mercoledì 23 gennaio 2008
Gli stemmi di Ravenna e di Fano.
Ecco dov'è possibile leggerli:
martedì 1 gennaio 2008
Tra Passionei e Brancaleoni: considerazioni araldiche sul cassone nuziale esposto al Palazzo ducale di Urbino.
Sugli specchi centrali del fronte del cassone sono rappresentati due episodi della storia di Roma antica (la morte di Lucrezia e l’uccisione di Tarquinio) che, come ha rilevato Germano Mulazzi, sono resi con un gusto narrativo da favola cortese ancora in voga nella prima metà del Quattrocento (1). E’ infatti alla prima metà di quel secolo che viene datato questo manufatto, realizzato con stile spiccatamente tardogotico. Ad indirizzare gli storici dell’arte verso i primi decenni del Quattrocento, oltre allo stile dell’opera, ha certamente contribuito anche l’interpretazione dei due emblemi rappresentati negli specchi laterali del fronte, dei quali ci occuperemo in questa sede.
Ultimo ad occuparsi di questo cassone nuziale è stato il sovrintendente Paolo Dal Poggetto nella sua attesa guida alla Galleria Nazionale urbinate. Scrive Dal Poggetto: “la presenza degli stemmi Brancaleoni e Alidosi (leone rampante e scudo contrassegnato con stella) ci dà infatti la certezza che il cassone appartenne a Federico, dal momento che egli sposò in prime nozze nel 1437 (a soli quindici anni) Gentile Brancaleoni (…). Il cassone è con ogni probabilità databile 1415, anno delle nozze di Bartolomeo Brancaleoni e Giovanna Alidosi” (2).
Come vedremo, la certezza espressa da Dal Poggetto non trova però conferma nell’analisi araldica del manufatto. Del resto la vicenda della critica storico-artistica di questo manufatto rappresenta un chiaro esempio di come talune soluzioni, avanzate come ipotesi, vengano col tempo trasformate in certezze non fondate, e anche un esempio di come tra diverse ipotesi formulate possa esserne scelta una in particolare senza alcuna giustificazione se non, forse, la volontà magari inconscia di attribuire all’oggetto dell’ipotesi una vicenda storica aulica degna della più alta attenzione per via del collegamento a fatti o persone di chiara rinomanza (3).
Paolo Dal Poggetto cita come fonte la presentazione del restauro del manufatto redatta da Germano Mulazzi. Scriveva Mulazzi nel 1969: “dagli stemmi che reggono i due cavalieri raffigurati negli specchi ai lati della fronte, si è pensato che l’opera sia stata commissionata per le nozze di Bartolomeo Brancaleoni, signore di S. Angelo in Vado e Mercatello, e Giovanna Alidosi, nozze celebrate nel 1415 e da cui nacque Gentile, prima sposa di Federigo da Montefeltro” (4) ma aggiungeva: “l’ipotesi non può essere del tutto verificata, ma si può ugualmente ritenere indicativa la data: se non proprio il 1415, certo i primi decenni del XV secolo” (5).
Come si vede la certezza di Dal Poggetto risulta in realtà proposta come ipotesi da Mulazzi, un’ipotesi che l’Autore dichiarava non del tutto verificabile e che a sua volta aveva ripreso, da quanto scritto nel 1930 dal sovrintendente Luigi Serra: “due cavalieri che alzano gli stemmi degli sposi – leone rampante e scudo contrassegnato con stella – che si vorrebbero identificare l’uno per quello dei Brancaleoni, l’altro degli Alidosi o dei Passionei – non senza richiamare le nozze avvenute il 15 maggio 1415 fra Bartolomeo Brancaleoni, signore di S. Angelo in Vado e di Mercatello, e Giovanna Alidosi, dalle quali nacque Gentile, prima moglie del Duca Federico” (6).
Serra dunque proponeva due diverse ipotesi per l’attribuzione della coppia di stemmi:
a) Brancaleoni – Alidosi;
b) Brancaleoni - Passionei.
La seconda ipotesi, che come abbiamo visto è scomparsa dalla critica più recente, appare avvicinarsi al vero ed è un peccato che sia stata dimenticata.
I due cavalieri sono abbigliati con stile tipico della prima metà del Quattrocento, si pensi ai dipinti di Pisanello o al monumento funebre di Niccolò Mauruzi da Tolentino o alla rappresentazione del medesimo nella Battaglia di San Romano di Paolo Uccello:
Il cavaliere collocato alla sinistra araldica, verosimilmente recante le insegne della moglie (nell’ipotesi che si tratti effettivamente di un cassone nuziale) ha come insegna un leone rampante nero in campo oro.
Questo stemma col leone è effettivamente quello di Bartolomeo Brancaleoni come si ritiene comunemente? Ricordiamo che quella del leone è la figura animale in assoluto più rappresentata in araldica. Un antico adagio affermava: “chi non ha armi porta un leone” (9), dunque affermare che quello dipinto sul cassone è lo stemma dei Brancaleoni (nello specifico di Bartolomeo) solo perché v’è raffigurato un leone appare un azzardo.
Anche alla prova degli smalti lo stemma non sembra potersi riferire immediatamente ai Brancaleoni. L’arma dei Brancaleoni era d’argento al leone d’azzurro, ben diversa, quindi, dalla nostra: d’oro al leone di nero (11). Si potrebbe sostenere che l’artista volle (o dovette) usare come smalti solo l’oro di copertura del manufatto ed il nero per le figure dell’intera rappresentazione; in questo caso potremmo anche ritenere si tratti di una rappresentazione evocativa di un’arma avente in realtà smalti diversi: nel caso dei Brancaleoni l’argento e l’azzurro.
In ogni caso, però, sembra impossibile sciogliere con certezza la soluzione del problema dell’attribuzione di questo stemma nel senso indicato fino ad ora dagli storici dell’arte, ma non solo. Se è vero che a Piobbico alcuni stemmi dei Brancaleoni mostrano nello scudo il solo leone (12), nella maggior parte dei casi il leone dei Brancaleoni è sempre accompagnato da altre figure araldiche verosimilmente utili a realizzare delle brisure (13). E’ accompagnato in capo, da una fascia diminuita di rosso, caricata di una croce d’argento (patente o ottagona) nel caso dei Brancaleoni di Piobbico;
In particolare nello stemma scolpito sul sepolcro di Bartolomeo Brancaleoni del ramo Castel Durante, signore di Sant’Angelo in Vado e Mercatello, è ancora visibile il leone con la banda attraversante sul tutto (15).
L’altro cavaliere, collocato alla destra araldica, dovrebbe mostrare le armi del marito. Certo questo non è lo stemma degli Alidosi costituito da un’aquila verde in campo d’oro, caricata di un giglio e accollata di una corona, entrambi del campo.
Con riguardo a questo marchio possiamo dire che giusta fu la seconda ipotesi attributiva formulata da Renato Serra che indicò i Passionei di Urbino quali titolari di quell’emblema.
Chi si rechi a Urbino a far visita al Rettore della locale Università degli Studi, presso palazzo Passionei-Paciotti in via Valerio 9, come io ho più volte fatto in questi anni per ragioni dei miei incarichi come Conservatore del Maximus Ordo Torricinorum, non potrà non notare una ricca serie di emblemi dipinti sul soffitto in legno della sala della segreteria del Magnifico.
Vi sono rappresentate numerose armi ed insegne: l’arma bandata dei Montefeltro, quella con la sola aquila, quella inquartata che unisce le prime due, quella inquartata alla quale è aggiunto il palo della Chiesa, scudi con le imprese della granata e dello scopino. Tutte queste sono riconducibili ai Montefeltro. Vi sono poi rappresentati anche lo stemma dei Passionei (d’oro all’albero d’ulivo di verde attraversato sul ronco da un cartiglio d’argento con il motto gloria in excelsi deo) e infine scudi col nostro marchio commerciale in due versioni: in una il marchio d’oro è collocato in un campo rosso, nell’altra il marchio nero è collocato in un campo d’oro.
La presenza delle numerose insegne dei Montefeltro può certo essere interpretata come un omaggio ai signori di Urbino (si pensi alla presenza dell’arma montefeltresca nel soffitto del portico di palazzo Odasi di Urbino),
La presenza del palo della Chiesa nello stemma ducale indica che la decorazione del soffitto risale a non prima dell’agosto 1474, d’altronde Franco Negroni ci informa che il palazzo venne acquistato da Paolo di Guido di Paolo Passionei l’11 marzo 1474 (17). Possiamo allora ben immaginare che dopo l’acquisto il nuovo proprietario volle rinnovare l’edificio sfoggiando le proprie insegne e quelle del suo signore, per il quale svolgeva l’importante ufficio di amministratore di corte.
Il Passionei acquistò il palazzo dal conte Ugolino Bandi che per stemma aveva un leone caricato di due bande doppiomerlate, una sul collo e sulla coscia sinistra(18).
Nel 1744 il palazzo stava per divenire di proprietà della Fraternita di Piandelmercato, ma per l’opposizione di alcuni eredi quest’istituzione poté solamente goderne l’affitto (20). Sappiamo che il cassone venne acquistato dallo Stato nel 1915 da un’altra importante istituzione urbinate: la Congregazione di Carità.
Se dunque il marchio sembra ricondurre la vicenda di questo cassone ai Passionei, se questo cassone è effettivamente un cofano nuziale, ed infine, se il marchio e gli emblemi sono stati rappresentati ab origine sugli scudi e sulle gualdrappe, allora per l’individuazione del titolare dello stemma col leone si potrebbe scorrere l’albero genealogico dei Passionei.
Noi conosciamo due versioni di questo albero custodite presso la Biblioteca universitaria di Urbino (21).
Va poi ricordato che la convenzione araldica di porre l’insegna del marito alla destra araldica potrebbe non essere stata rispettata in questo caso (23), quindi occorrerebbe verificare anche i consorti delle donne di casa Passionei, che nelle genealogie che abbiamo consultato non compaiono se non quinta generazione, nel Cinquecento inoltrato. Un indagine completa potrebbe essere effettuata attraverso l’esame degli atti rogati dai notai urbinati (matrimoni, costituzioni di dote, donazioni ecc.).
Dobbiamo però porci ulteriori domande. Assodato che nella seconda metà del Quattrocento i Passionei possedevano un’arma araldica, perché nel cassone rappresentarono una marca commerciale come insegna, piuttosto improbabile… diremmo, di un cavaliere? La risposta più ovvia potrebbe essere che al momento della realizzazione del cassone (alcuni decenni prima) i Passionei non avevano ancora uno stemma araldico, ma per vi della loro professione avevano un marchio di commercio. Ma questa affermazione risponde al vero? L’utilizzo di lettere o cartigli dentro lo scudo è una caratteristica tutt’altro che comune in araldica, specie nell’araldica medievale. Forse, la presenza del cartiglio nello stemma dei Passionei potrebbe suggerire un’adozione tarda dello stemma, se di stemma originario si tratta. Ricordiamo che una delle leggende relative alla nascita della famiglia Passionei era quella che voleva essere stato capostipite della casata uno dei pastori presenti alla nascita di Gesù (leggenda alla quale si deve con ogni probabilità la presenza del cartiglio con al dicitura “gloria in excelsi deo”) sorta quando la famiglia Passionei ebbe la necessità di nobilitare la propria ascendenza secondo uno stile leggendario comune a molte casate.
NOTE
(1) G. Mulazzi, Mostra di opere d’arte restaurate, XII settimana dei musei 1969, STEU Urbino 1969, pp. 54 e 55. L’Autore sottolinea tra l’altro come “i due episodi sono molto cari alla storia moralizzata del Medio Evo, allusione raffinata e insieme ingenua alla virtù e ai doveri coniugali”.
(2) P. Dal Poggetto, La Galleria Nazionale delle Marche e le altre collezioni nel Palazzo ducale di Urbino, Roma, 2003, p. 62.
(3) Nel nostro caso il riferimento al più noto dei Montefeltro, Federico (1422-1482).
(4) G. Mulazzi, Mostra di opere d’arte restaurate, XII settimana dei musei 1969, cit., p. 54.
(5) Ibidem.
(6) L. Serra, Il Palazzo Ducale e la Galleria Nazionale di Urbino, Roma, 1930, p. 32.
(7) In ambito urbinate troviamo questo genere di copricapo negli affreschi della chiesa di San Domenico di Urbino eseguiti da Antonio Alberti da Ferrara intorno al terzo decennio del Quattrocento, ora al Museo Diocesano Albani, o nella tavola della Flagellazione di Piero della Francesca della metà del Quattrocento.
(8) Si noti come il cavaliere di sinistra (destra araldica) imbracci lo scudo rivolto verso destra in direzione del centro del cassone per ragioni simmetria.
(9) Cornici analoghe racchiudono le rappresentazioni degli scudi di Guidantonio da Montefeltro (+1443) e del cugino Antonio da Montefeltro (+1448) sopra il portale di palazzo Bonaventura ad Urbino.
(10) M. Pastoreau, Medioevo simbolico, Laterza, Roma - Bari, 2007, p. 43.
(11) A fronte degli innumerevoli stemmi dei Brancaleoni scolpiti nella pietra ed ormai privi di smalti, si può ammirare il leone azzurro in campo d’argento negli affreschi che decorano la Sala greca del palazzo di Piobbico, realizzati per volere di Antonio Brancaleoni nel 1589.
(12) Si pensi allo stemma scolpito murato nei pressi di porta di Via Cupa a Piobbico, o allo stemma col solo leone nella serie del fregio araldico che decora la cappella di San Carlo Borromeo nel palazzo dei Brancaleoni di Piobbico.
(13) Il consorzio gentilizio dei Brancaleoni di Castel Durante si divise per stirpi nel 1413: Bartolomeo ebbe i feudi di Sant’Angelo in Vado e di Mercatello col titolo di Rettore della Massa Trabaria, i cugini Galeotto e Alberico ebbero i domini di Castel Durante, Sassocorvaro e di altri che tennero fino al 1424 e fino al 1430 quando Guidantonio da Montefeltro li tolse loro per ordine di Martino V divenendo di lì a poco titolare degli stessi col titolo di conte, sulla vicenda V. Lanciarini, Il Tiferno Metaurense e la Provincia di Massa Trabaria, (rist. an.), S. Angelo in Vado, 1988, pp. 301-302, 374-375 e380-383. La divisione non dette luogo ad alcuna brisura a noi nota. (14) Sull’arma dei Brancaleoni si veda quanto asserito nel sec. XVI da Costanzo Felici in D. Bischi, I Brancaleoni di Piobbico, Bruno Ghigi Editore, Rimini, 1982, pp. 62 e 63; nonché gli stemmi riprodotto dall’Henninges nel 1598, ivi, p. 33. Del tutto fuorviante appare poi la definizione del “leon d’oro” che tanta fortuna continua ad avere, ma che (a dispetto dello stemma che decora una sala del palazzo di Piobbico, non ha nulla a che fare con lo stemma dei Brancaleoni, si veda a questo per esempio S. Tacconi, I conti Brancaleoni, Piobbico, il Castello, STEU, Urbino, 1958, p. 9. Appare evidente come il tema dell’araldica dei Brancaleoni debba essere ancora studiato con attenzione. La presenza della fascia in capo o della banda negli stemmi dei Brancaleoni ci induce a ritenere probabile l’esistenza di uno stemma più antico e unico, precedente le divisioni della casata, costituito dal solo leone d’azzurro in campo d’argento. Gli stemmi dei diversi rami della famiglia fanno bella mostra di loro nel citato fregio nella cappella di San Carlo Borromeo nel Palazzo Brancaleoni di Piobbico.
(15) La magnifica arca tombale in stile tardogotico è murata piuttosto in alto nella contro facciata della Chiesa di San Francesco a Mercatello sul Metauro. Lo stemma completo di leone accovacciato con cresta di drago e cartiglio si trova sul coperchio e appare difficilmente visibile, ma il leone attraversato dalla banda si trova anche nei due specchi laterali del sarcofago, ben visibili all’osservatore. Non appartiene assolutamente a Gentile Brancaleoni e a suo padre Bartolomeo lo stemma attribuitole da tal Bartolomeo Ceccarini di Urbino nel ritratto immaginario della contessa realizzato nel 1796 e pubblicato in L. Ceccarini, Non Mai, Accademia Raffaello, Urbino, 2002, tavola fuori testo. Il disegnatore, non solo sembrerebbe aver invertito gli smalti dell’arma col leone, ma ha aggiunto un vero e proprio capo di Malta, improprio per il ramo di Piobbico, ma assolutamente assente in quello di Castel Durante – Mercatello – Sant’Angelo in Vado al quale appartenevano Gentile e Bartolomeo.
(16) F. Negroni, Appunti su alcuni palazzi e case di Urbino, Accademia Raffaello, Urbino, 2005, p. 54, “Questo palazzo nel suo nobile aspetto rinascimentale, pur con ritocchi successivi, deve la sua origine a Paolo di Guido Passionei, mercante e amministratore di corte nell’ultimo trentennio del 1400.
(17) F. Negroni, Appunti su alcuni palazzi e case di Urbino, cit., p. 55. Come ricorda l’Autore il palazzo non era dei Montefeltro e i Passionei non l’acquistarono da loro, diversamente da quanto altri studiosi hanno affermato, si veda per esempio F. Mazzini, I mattoni e le pietre di Urbino, Cassa di Risparmio di Pesaro, Pesaro, 1982, p. 291.
(18) Si veda lo stemma scolpito custodito nell’ex cappella Paltroni in San Francesco a Urbino.
(19) F. Negroni, Appunti su alcuni palazzi e case di Urbino, cit., pp. 55 e 56.
(20) Ibidem.
(21) Biblioteca Universitaria di Urbino, Fondo del Comune, busta 173, fasc. 5 (5i), Passionei, cc. 1-8.
(22) Se si può applicare al caso dei cassoni nuziali, quello dei codici manoscritti, ricordiamo quanto affermato abbiamo letto in M. Peruzzi, Cultura potere immagine. La biblioteca di Federico di Montefeltro, Accademia Raffaello, Urbino, 2004, p. 72: “a Firenze (…) a causa della densità di richieste e del commercio librario, si tendeva a decorare il codice in modo che potesse adattarsi a qualsiasi compratore, lasciando vuoto lo spazio destinato a ricevere lo stemma gentilizio, che veniva dipinto a vendita avvenuta”.
(23) E’ noto un altro fronte di cassone ritenuto legato alle vicende di Federico da Montefeltro facente parte di una collezione privata. le decorazioni principali consistono in tre medaglioni raffiguranti a sinistra un busto femminile di profilo, al centro un’aquila coronata a volo abbassato, a destra un busto maschile di profilo. entrambe i personaggi guardano verso il centro e nel profilo maschile si riconoscono i tratti caratteristici di Federico da Montefeltro. Tra il medaglione femminile e l’aquila è collocato uno scudo a mandorla con l’arma degli Sforza (quindi il profilo femminile è quello di Battista Sforza che Federico sposò nel 1460, tra il medaglione maschile e l’aquila è collocato uno scudo a mandorla con l’arma dei Montefeltro… ma entrambi questi stemmi risultano rivolti e le bande divengono sbarre (si noti tra l’altro che si tratta di tre sbarre d’oro in campo azzurro, una configurazione sospetta d’essere ben più tarda). Il tutto appare disposto in modo curioso. Araldicamente parlando l’arma del marito e verosimilmente la sua effige avrebbe dovuto trovare posto a sinistra (destra araldica) e viceversa la moglie. L’unica spiegazione della diversa posizione può derivare dalla necessità di rappresentare Federico col solito profilo. Ma perché invertire gli stemmi? Per ragioni di simmetria? In questo contesto trasformare le bande dei Montefeltro in sbarre non avrebbe molto senso. Se decidessimo di invertire la figura ci troveremmo d’incanto con la moglie e il marito al posto giusto e con le armi correttamente orientate… l’unica a farne le spese sarebbe l’aquila che si troverebbe ad essere rivolta. L’immagine del manufatto è stata pubblicata in M. Bonvini Mazzanti, Battista Sforza Montefeltro. Una “principessa” nel Rinascimento italiano, Quattroventi, Urbino, 1994, tav. f. t.; si vedano sull’argomento: M. Trionfi Honorati, Un cassone di pastiglia del Quattrocento, in “Antichità viva”, X, 4 (1971), pp. 52 e 53 e W. Fontana, Affreschi di Paolo Uccello nel Palazzo Ducale di Urbino, in AA.VV., Federico di Montefeltro. Lo Stato, le arti, la cultura, Bulzoni Editore, Roma, 1986, vol. 3, pp. 147 e 148.