giovedì 20 giugno 2019

Pandolfo III Malatesti: domini, uomini d'arme e insegne


Devo dare conto, con quasi un anno di ritardo, di alcune mie iniziative dell'estate 2018.
La prima si è svolta presso la Biblioteca Federiciana dal 20 agosto al 2 settembre, in occasione della quinta edizione del Palio delle Contrade


Esposizione di Codici malatestiani
a cura di
Sara Cambrini
(archivista Sezione di Archivio di Stato di Fano)
e
Antonio Conti
(araldista)


 

 
 
 
 
 
 



Dal dépliant:
 
I Codici malatestiani

I Codici Malatestiani sono 113 volumi (e una busta miscellanea) che fanno parte dell’Antico Archivio Comunale di Fano e conservano memoria della dominazione dei Malatesti su Fano e su altre terre. Sono datati dal 1367 e al 1463 e coprono gli anni della signoria malatestiana su Fano iniziata nel 1355 con la prima concessione del vicariato apostolico in temporalibus a Galeotto I, fino alla cacciata di Sigismondo Pandolfo ad opera dell’esercito papale comandato da Federico da Montefeltro nel 1463.

La denominazione di Codici Malatestiani risale a fine ‘800 e fu data da mons. Aurelio Zonghi che per primo ordinò la parte antica dell’Archivio del Comune di Fano e descrisse questi volumi (Repertorio dell’antico archivio comunale di Fano, Fano 1888). I Codici costituiscono la I serie della I sezione dell’Antico Archivio comunale di Fano, oggi conservato presso la Sezione di Archivio di Stato di Fano.

Zonghi ordinò i codici per dominazioni: Galeotto I (1355-1385), nn. 1 e 2; Pandolfo III (1385- 1427), nn. 3-72; Carlo (fratello di Pandolfo) e Sigismondo Pandolfo, Galeotto Roberto etc., nn. 73-78; Sigismondo Pandolfo (1429-1463), nn. 79-112. I codici del periodo di Pandolfo III si distinguono in: relativi al dominio su Fano, codici 3-39; relativi al dominio su Brescia (1404- 1421), Bergamo (1407-1419) e Lecco (1498-1418), nn. 40-68.

 Si tratta di volumi di vario formato, in parte membranacei e per la maggior parte cartacei, che spesso conservano ancora le coperte originali in pergamena (come il codice 8 qui in mostra), scritti in latino e spesso in volgare. Dal punto di vista della tipologia documentaria, si tratta principalmente di libri di conti: registrazioni di entrate e spese, partitari di dare e avere, libri mastri e libri giornali, che documentano le entrate e le uscite della corte dei Malatesti, e in senso più lato il suo funzionamento. A questi si aggiungono alcune raccolte di bandi e decreti, lettere, suppliche etc.

 I Codici Malatestiani sono documenti di estrema utilità per lo studio della storia politica, sociale ed economica della famiglia e della città di Fano: da essi si possono evincere notizie su molteplici aspetti della vita di corte, ma anche del comune: condotte militari, tasse e collette, usi alimentari, abbigliamento etc. Dal punto di vista archivistico sono una rarità: si tratta di una delle poche testimonianze, seppure parziali, di un archivio signorile, che documenta l’interesse pratico per la buona tenuta dei conti, ma anche indirettamente la consuetudine con la scrittura.

Anche prima dell’opera meritoria dello Zonghi, la storiografia fanese aveva attinto a questa preziosa fonte, mentre da ormai diversi anni importanti ricerche e pubblicazioni sono venute soprattutto da Anna Falcioni, docente dell’Università di Urbino. Ora, non si può che salutare il prossimo avvio del lavori del Centro Internazionale di Studi Malatestiani, costituito a Fano, che ha tra le principali finalità lo studio e l’edizione dei Codici Malatestiani a vantaggio dell’intera comunità, non solo scientifica.

L’esposizione in occasione della 5a edizione del Palio delle Contrade

La presente esposizione è proposta dalla Biblioteca Federiciana come evento collaterale al Palio delle Contrade, manifestazione ormai giunta alla quinta edizione, organizzata dal Gruppo Storico La Pandolfaccia, che unisce momenti rievocativi, di spettacolo e culturali relativi alla vicenda storica del dominio di Pandolfo III Malatesti sulla città di Fano (1385-1427).

I codici esposti sono una piccola selezione di un prezioso patrimonio documentario che è fonte storica anche per l’organizzazione del Palio con la preziosa consulenza storica di Anna Falcioni; per quanto essi siano di pubblica consultazione, sono poco noti al pubblico. I ricercatori storici li hanno consultati per il loro studi, gli appassionati di storia li conoscono attraverso gli studi pubblicati, i più curiosi li avranno già visti in occasione di altre esposizioni; in questa occasione si è voluto dare un’altra opportunità di conoscenza a quanti si avvicineranno al mondo dei Malatesti grazie al Palio: i fanesi, ma anche i turisti che si trovano in città sul finire della stagione balneare.

Con questa esposizione si sono voluti mostrare i codici come oggetti materiali, permettendo all’osservatore di apprezzarne le caratteristiche (i materiali, le molteplici dimensioni, le caratteristiche scritture, l’uso del latino e del volgare, le antiche coperte in pergamena); ma soprattutto di cogliere, con alcuni esempi selezionati, quale tipo di informazioni possono comunicare questi antichi documenti. per questo i codici sono corredati di didascalie, ma anche di trascrizioni, regesti, immagini, cartine e brevi approfondimenti.


Il Palio è una competizione quasi guerresca nella comunità cittadina e la Pandolfaccia nasce come rievocazione di una compagnia militare malatestiana; si è pertanto scelto un particolare percorso espositivo tra i tanti possibili offerti dai Codici Malatestiani. Partendo dall’individuazione dei luoghi dominati da Pandolfo III (ciascuno indicato col principale magistrato), ci si sofferma sul caso di Corinaldo e la nomina del suo Capitano; molti luoghi erano muniti di fortezze presidiate da guarnigioni, regolarmente sottoposte a riviste dette mostre, come accadeva per le porte delle città, in questo caso sono state prese ad esempio fanese di porta San Marco e porta Galea. Oltre al controllo del territorio, l’aspetto militare riguardava anche la principale occupazione di Pandolfo III (quella di condottiero), qui ricordata con la nota dei pagamenti ai soldati reclutati per una campagna militare tra il 1397 e il 1398; vi si rintracciano personalità significative come Galeotto Brancaleoni ma anche Angelo della Pergola. In fine le armi del signore, offensive come spade e daghe, o difensive come elmi e corazze, sontuosamente guarnite dagli orefici, ma anche adornate di segni distintivi (come pennacchi sull’elmo), che corrispondevano al colori militari della casata: la cosiddetta "divisa" che anche con Pandolfo III (come per altre personalità e casate) sembrerebbe essere stata verde, rossa e bianca, come risulterà in modo inequivocabile col figlio Sigismondo Pandolfo.



Bibliografia di riferimento

P.M. AMIANI, Memorie istoriche della città di Fano, Fano 1751.

M. CIAMBOTTI, A. FALCIONI, Liber viridis rationum curie domini. Un registro contabile della cancelleria di Pandolfo III Malatesti, Urbino 2007.

M. CIAMBOTTI, A. Falcioni, Il sistema amministrativo e contabile nella signoria di Pandolfo III Malatesti (1385-1427), Milano 2013.

A. FALCIONI, A. DE BERNARDINIS (a cura), L’età di Pandolfo III Malatesti. Mostra storico - documentaria, Pesaro 2011.

A. FALCIONI, Il costume e la moda nella corte di Pandolfo III Malatesti, Fano 2009.

Il Codice n. 12 dell’Archivio Malatestiano di Fano, in "Studia Picena", 1926.

E. IRACE (a cura), Gli Arcipreti della Penna: una famiglia nella storia di Perugia, Perugia 2014.

F. MILESI (a cura), Fano Medievale, Fano 1997.

A. POLVERARI, Mondavio dalle origini alla fine del Ducato di Urbino (1631), Ostra Vetere 1984.

M. PREDONZANI, Anghiari, 29 giugno 1440. La battaglia, l’iconografia, le compagnie di ventura, l’araldica, Rimini 2010.

M. PREDONZANI, L’araldica militare di Pandolfo III Malatesta, signore di Brescia e Bergamo, in "Soldatini", n 105, marzo-aprile 2014; online nel sito www.stemmieimprese.it.

V. VILLANI, Signorie e comuni nel Medioevo marchigiano: I conti di Buscaredo, Ancona 1992.

A. ZONGHI, Repertorio dell’Antico Archivio Comunale di Fano compilato da mons. Aurelio Zonghi prelato domestico di sua santità Leone XIII, Fano 1888.

Il sito www. condottieridiventura.it

 

Si ringraziano

Massimo Predonzani per il disegno di Pandolfo III  (www.stemmieimprese.it)

Andrea Carloni per le foto dell’Oratorio di San Giovanni di Urbino  (https://www.flickr.com/photos/andrea_carloni/)

 

 

 
Pannello introduttivo-colophon

 
Pannello della I Sezione
 
Pannello della II Sezione
 
Pannello della III Sezione
 
 
 
 
 

 





 


giovedì 28 giugno 2018

E' DEI BOCCACCI IL PIU' CELEBRE STEMMA "MALATESTIANO" DI FANO


Non è uno stemma qualunque. È lo stemma malatestiano per eccellenza nella città di Fano, tanto da essere stato scelto quale simbolo dei Musei Civici Malatestiani.

Celebre per il cimiero del liocorno crestato, questo stemma, murato nel portico dell’ex chiesa di San Francesco, è stato costantemente attribuito alla famiglia Malatesti dalla storiografia fanese e non, per quasi duecento anni.
 
 
 
 

 
Tuttavia, l’attribuzione malatestiana non ha retto alla prova della ricerca compiuta dall’araldista Antonio Conti. L’indagine, basata su diverse fonti documentarie, è stata compiuta principalmente presso i principali archivi fanesi: Biblioteca Federiciana e Archivio diocesano. All’esito è emerso che lo stemma deve essere attribuito alla famiglia Boccacci.

Lastra terragna con stemma - Stemma dei Boccacci - Stemma con smalti malatestiani 


I Boccacci provenivano dal dominio malatestiano di Meldola, nell’entroterra forlivese. Si stabilirono a Fano all’inizio del Quattrocento con certo Molduccio, che fu tra le personalità più vicine a Pandolfo III Malatesti signore di Fano. Molduccio fu podestà di Senigallia e forse anche di Fano, poi venne nominato referendario per tutti i domini di Pandolfo III nelle Marche, in Toscana e in Romagna.

La famiglia Boccacci si estinse nel Settecento, dopo aver attivamente partecipato alla vita politica della città. Tra le sue fila si rintracciano consiglieri e gonfalonieri del comune di Fano, castellani, capitani, cavalieri dell’Ordine di Santo Stefano, conti e baroni, poeti e sacerdoti.


La ricerca è stata presentata in anteprima in una conferenza organizzata in la collaborazione del Sistema Bibliotecario del Comune di Fano, sotto l’egida dello Iagi e della Cigh, presso la Mediateca Montanari (Memo), nella giornata del 22 giugno 2018; sarà prossimamente pubblicata sulla rivista “Nobiltà” dell’Istituto araldico Genealogico Italiano.
 
 

L'articolo, intitolato Lo stemma "malatestiano" col cimiero del liocorno crestato attribuito alla famiglia Boccacci, si compone dei seguenti paragrafi:
Questione di stile
L'attribuzione ai Malatesti
Aspetti controversi dell'attribuzione malatestiana
Una nuova attribuzione, ai Boccacci di Fano
Chi erano i Boccacci?
Conclusioni


Da "il Resto del Carlino", edizione di Pesaro, mercoledì 27 giugno 2018, p. 12.




Sito del Comune di Fano

 
 
 
 
 

sabato 17 febbraio 2018

Lo stemma del Comune di Urbino prima, durante e dopo il regime napoleonico


Lo scorso mese di dicembre 2017 è stato pubblicato il libro a cura di Agnese Vastano: Verso Milano. Le spoliazioni napoleoniche a Urbino. Nel volume compaiono numerosi interventi, tutti anche tradotti in inglese:

- Agnese Vastano, Prefazione (pp. 10-11)
- Daniele Diotallevi, Il generale Bonaparte in Italia. Genio militare e uomo di cultura? (pp. 13-28);
- Bonita Cleri, La Pala Montefeltro nella cultura urbinate del Quattrocento (pp. 29-50);
- Valentina Catalucci, Tra “le più belle opere di pittura che formavano il di Lei ornamento”: i dipinti di Timoteo Viti sottratti alla città di Urbino (pp. 51-62);
- Anna Fucili, La Madonna di Santa Chiara, opera presunta di Raffaello, dispersa in epoca di soppressionni. Da Urbino a Cambridge, Massachusett, trasferimenti e curiosità iconografiche (pp. 63-92);
- Antonio Conti, Lo stemma del Comune di Urbino prima, durante e dopo il regime napoleonico (pp. 93-129);
- Andrea Bernardini, Urbino al tempo delle spoliazioni napoleoniche. Regesto documentario (pp. 130-159).



Il volume è dedicato a un tema annoso e molto sentito a Urbino per il particolare pregio di alcune opere sottratte dal regime napoleonico alla città: prima fra tutte la celebre Pala Montefeltro  (impropriamente detta anche Pala di Brera) dipinta da Piero della Francesca e ora esposta alla Pinacoteca Nazionale di Brera, a Milano. Che posto poteva trovare un saggio di araldica, o comunque un saggio legato al fenomeno araldico in un volume di questo tipo? Ho riflettuto qualche giorno, poi lo spunto è giunto con un dipinto di Timoteo Viti, sottratto dai napoleonici nel 1810, anch’esso a Brera, ma non esposto. Si tratta della conversazione della Vergine col Bambino e i santi Crescentino e Donnino, una tela nella quale il santo patrono di Urbino sorregge il vessillo armeggiato della città, un esempio unico di questo tipo di rappresentazione, per Urbino, a fronte di un’ampia serie di santi vessilliferi presso altri comuni della regione, innanzitutto san Terenzio di Pesaro. Questa tela, databile ai primissimi anni del XVI secolo, è dunque stata il pretesto per tornare sul tema dello stemma Urbinate, in maniera ancor più approfondita di quanto non ho già fatto nel pur completo intervento nel volume “Le Marche sugli scudi. Atlante degli stemmi comunali” edito da Andrea Livi Editore me 2015, a cura di Mario Carassai, con testi di Alessandro Savorelli, Vieri Favini e miei.

Dunque il mio intervento s’intitola lo stemma di Urbino prima, durante e dopo il regime napoleonico; non ho volutamente richiamato il Regno d’Italia, nel titolo, perché per regime napoleonico ho voluto intendere anche la breve parentesi giacobina di fine XVIII secolo.


Il mio intervento prende in esame tutte le fonti fino ad ora note e le interpratazioni storiche addotte nella non piccola bibliografia sul tema. Alcune fonti, molto importanti, sono per altro state individuate da me in anni di ricerca e in gran parte già proposte all’attenzione degli studiosi con pubblicazioni.

Dagli albori del Comune urbinate (attestato all’inizio del XIII secolo), al mancato decreto di riconoscimento dello stemma, fino al logotipo ideato da Albe Steiner nel 1969, passando per l’emblematica adottata dal regime giacobino e l’araldica civica napoleonica. Il racconto delle fonti e l’interpretazione che propongo si sviluppano seguendo i seguenti paragrafi:

1. Un pretesto
2. L’araldica civica
3. La tradizione dell’aquila quale stemma del Comune: leggenda o realtà?
4. San Crescentino patrono, protettore ed emblema del Comune
5. L’uso civico dell’antico stemma signorile
6. Bonaparte e Napoleone I: fine e ripresa dell’uso delle storiche insegne comunali
7. Dopo Napoleone.
 
Il testo è corredato di 24 illustrazioni in bianco e nero e a colori, molte delle quali sono inedite.


A. Vastano, Verso Milano. Le spoliazioni napoleoniche a Urbino, Leardini Editore, Macerata Feltria, 2017.

lunedì 15 gennaio 2018

Il segno del falco, dai microfoni di Radio Incontro (Pesaro)


Nella trasmissione "L'invitato speciale" di Radio Incontro Pesaro, andata in onda oggi 15 gennaio 2018, ho avuto l'occasione di fare quattro chiacchere su "Il segno del falco".

PER ASCOLTARE CLICCA QUI




mercoledì 1 novembre 2017

Il segno del Falco - Recensione su "Nobiltà"


Sull'ultimo numero di "Nobiltà" (a. XXV, n. 140, ottobre-novembre 2017), è apparsa la recensione de Il segno del falco, redatta da Alessandro Savorelli. Una gradita sorpresa.



 



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lunedì 16 ottobre 2017

Il sigillo di un conte Guido, forse di Montefeltro (XIV sec.)


Le prime testimonianze araldiche dei Montefeltro provengono da alcuni sigilli e da alcuni stemmi su monumenti. Tra i primi, la storiografia ricorda un sigillo circolare, di rame, al centro del quale è rappresentato uno scudo gotico bandato con un’aquila sulla prima banda. Lo scudo è circondato dalla legenda: “+ s. gvidonis comitis mōtī fēlīī”. Nonostante sia molto consumato, si possono apprezzare i segni superstiti di alcuni elementi decorativi di riempimento del campo del tipario, motivi floreali disposti secondo uno schema consueto per l’epoca: un elemento uscente dal centro di ciascuno dei tre lati dello scudo, con l’aggiunta di un quarto elemento, forse un fiore, dalla punta dello scudo.
 
(Sigillo pubblicato da F.V. Lombardi*)
 
Questo sigillo fu pubblicato per la prima volta nel 1902 da Luigi Junior Rizzoli, conservatore del Museo Bottacin di Padova, dove il sigillo è tuttora conservato. Leggendo nel sigillo “Montis Felcini” o “Montis Fenlini” Rizzoli si limitò a constatare che, di fronte all’inesistenza di un Monte Fenlino, si poteva rintracciare un Monte Felcino in provincia di Pesaro e Urbino (1).

La pubblicazione di Rizzoli destò l’interesse di Giuseppe Castellani il quale, ottenuta l’impronta del sigillo, vi riconobbe l’arma dei Montefeltro. L’interesse di Castellani si concretò poi in un articolo pubblicato su “Le Marche Illustrate”, nel 1902 (2). Ammettendo che non c’era prova del possedimento comitale di un Guido da Montefeltro su Monte Felcino, Castellani ritenne che la legenda dovesse esser letta come: “+ Sigillum Guidonis Comitis Montis Feltrii”. Citando Ginanni (3), di Crollalanza (4), Reposati (5) e altri autori che si occuparono dell’araldica e della monetazione feltresca, Castellani rilevò come l’arma del sigillo fosse pressoché identica all’arma dei Montefeltro, e concluse che il conte Guido doveva essere stato Guido il Vecchio, nato intorno al 1220 e morto nel 1298. Ve detto, per inciso, che tutti questi autori blasonano lo stemma col capo dell’impero, mai riscontrato, invece, nelle armi dei Montefeltro.

Castellani riferì le sue conclusioni a Rizzoli, e questi ne diede conto nel volume I sigilli del Museo Bottacin di Padova. Scrisse Castellani a Rizzoli: «È facile determinare a quale Guido da Montefeltro abbia appartenuto il sigillo stesso, perché il titolo di conte, comitis, ci sgombra la via da ogni incertezza. Uno solo di tal nome fu conte di Montefeltro, Guido detto il Vecchio, figlio di Montefeltrano II» (6). Nonostante le argomentazioni di Castellani, il conservatore del Museo padovano confermò la precedente lettura paleografica (dunque non Montefeltro), ma ammise che il sigillo poteva essere datato alla fine del XIII secolo, invece che ai primi decenni del XIV come aveva scritto in precedenza.

Castellani dimenticò di comunicare a Rizzoli di aver pubblicato un articolo sul tema nelle pagine di “Le Marche Illustrate”, nel 1902. Poteva chiudersi qui la partita? Certamente no. Luigi Junior Rizzoli, nel 1905, scrisse a “Le Marche Illustrate”: «Poiché soltanto ora mi sono accorto che il prof. Castellani pubblicò (…) credo mio dovere di riprendere proprio qui le poche ragioni da me addotte in opposizione a quelle del Castellani» (7). Sostanzialmente Rizzoli confermò che lo stemma in questione «se non è quello dei Montefeltro, è perlomeno identico» e, pur confermando le ragioni paleografiche già espresse, signorilmente concluse: «per metterci d’accordo adunque è uopo ammettere che la paleografia degli antichi sigilli non sia stata generalmente sempre molto rigorosa». A puro titolo di curiosità ricordo che Marco Battagli, nel suo testo Marcha, scrisse che l’antico nome di Montefeltro era Montis Feliciani, ma questo non risulta mai associato ai conti di Montefeltro (8).

Questo sigillo potrebbe mostrare uno dei più antichi stemmi dei Montefeltro. È molto simile a quello classico, ma non identico: qui l’aquila carica la prima banda, non la seconda; così, se l’aquila è da intendersi nera, dovremmo costatare che gli smalti delle bande sono invertiti rispetto al consueto: non bandato d’azzurro e d’oro, ma bandato d’oro e d’azzurro. Potremmo ritenere questa incongruenza un’imprecisione dell’incisore, ma anche un segno dell’instabilità delle armi di quel periodo.

Purtroppo il sigillo non è in grado di dirci nulla di preciso sul suo titolare. Castellani identificò quel Guido con Guido il Vecchio, e alla luce di ciò anticipò di qualche decennio la datazione precedentemente proposta da Rizzoli (9); tuttavia, ammesso che si tratti di un sigillo montefeltresco, Guido il Vecchio non è affatto l’unico conte Guido della casata al quale il tipario potrebbe essere attribuito. La fama di Guido il Vecchio ha certamente indotto Castellani a ritenerlo il sicuro titolare del sigillo, ma il titolo comitale di Montefeltro spettava a tutti i membri maschi della famiglia. Guido il Vecchio ebbe, per esempio, un nipote omonimo, figlio di Federico (10), e non si può escludere che altri personaggi della famiglia, rimasti ignoti alle genealogie redatte fino ad ora, possano essersi chiamati Guido, in onore del celeberrimo antenato cantato da Dante. Il periodo di datazione permette di attribuire il sigillo sia a Guido il Vecchio sia al nipote omonimo che fu anch’egli esponente di primo piano del partito ghibellino nell’Italia centrale nei primi decenni del XIV.

In conclusione se, come appare, Federico da Montefeltro, figlio di Guido il Vecchio, non aveva ancora collocato l’aquila ghibellina nel suo stemma (almeno a tutto il primo decennio del XIV secolo) (11), è verosimile che questo sigillo, se di un Montefeltro, appartenne a suo figlio Guido, e non a suo padre. Pertanto sarebbe databile ai primi decenni del XIV come intuito da Rizzoli nel suo primo intervento. D’altra parte, Rizzoli acconsentì a ricondurre la datazione del sigillo al XIII secolo, e non al XIV, per via dell’indicazione di Castellani, ma un sigillo con analoghe caratteristiche a quello del conte Guido viene datato da Castellani al XIV secolo (12).

                                                 

(1) L.J. Rizzoli, “Bollettino del Museo Civico di Padova”, a. IV (1901), nn. 1 e 2, Padova, 1902.

(2) G. Castellani, Un sigillo di Guido da Montefeltro, in “Le Marche Illustrate” 1902, fasc. 1, p. 56 e ss.

(3) «Feltri stirpe dei Principi di Urbino, portava bandato d’oro e di azzurro, col Capo dell’Impero», M.A. Ginanni, L’arte del blasone, Venezia 1756, p. 207.

(4) «Feltri di Urbino (...) bandato d’oro e d’azzurro; col capo dell’impero», G. B. di Crollalanza, Dizionario storico blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane, cit., vol. I, p. 397; «Montefeltro famiglia Marchigiana di parte ghibellina: Bandato d’oro e d’azzurro; al capo caricato dell’aquila spiegata di nero», G. di Crollalanza, Gli Emblemi dei Guelfi e Ghibellini, Rocca San Casciano 1878, p. 151.

(5) R. Reposati, Della zecca di Gubbio e delle geste de’ conti, e duchi di Urbino, Gubbio 1773, vol. I, che ampiamente descrive le monete dei Montefeltro con i loro stemmi.

(6) L.J. Rizzoli, I sigilli del museo Bottacin di Padova, Padova 1903, p. 48, nota 4.

(7) L.J. Rizzoli, Un sigillo di Guido da Montefeltro?, in “Le Marche Illustrate” del 1905, F. 1-2, pp. 114 e 115.

(8) Cfr. Cronache Malatestiane dei secoli XIV e XV, in RIS, t. XV, p. II, p. XLIX, n. 4. Sul toponimo, D. Sacco, La Valmarecchia e la rupe di Montefeltro dall’età romana al basso Medioevo, in D. Sacco, A. Tosarelli, La fortezza di Montefeltro. San Leo: processi di trasformazione, archeologia dell’architettura e restauri storici, Sesto Fiorentino 2016, pp. 15-23.

(9) Le caratteristiche del sigillo (lo scudo gotico antico e le decorazioni verosimilmente floreali che fuoriescono dal centro dei tre lati dello scudo in steli a gruppi di tre) fanno ritenere che il sigillo risalga ai primi anni del Trecento o al più tardi alla metà dello stesso secolo.

(10) G. Franceschini, I Montefeltro, Milano 1970, pp. 188 e ss.

(11) A Conti, I Montefeltro nell’araldica monumentale trecentesca di Pisa, in M. Ferrari (a cura), L’arme segreta. Araldica e storia dell’arte nel Medioevo (secoli XIII-XV), Firenze 2015, pp.127-141

(12) L.J. Rizzoli, I sigilli nel museo Bottacin di Padova, cit., pp. 8 e 9.

* «Sigillo con lo stemma del conte Guido da Montefeltro (+1298) (tre bande d'oro in campo azzurro, con aquiletta», F.V. Lombardi, Mille anni di medioevo, in G. Allegretti, F.V. Lombardi, Il Montefeltro. 2. Ambiente, storia, arte nell'alta Valmarecchia, 1999, p. 116.

giovedì 10 agosto 2017

Malatesta su Wikipedia


In vista della collaborazione con un gruppo di rievocazione storica fanese, avevo deciso di dar colore agli stemmi del sepolcro di Paola Bianca Malatesta. Un'operazione banale, si dirà, ma dall'esito non scontato. La potenza del web aveva già mietuto vittime, affidatesi acriticamente a quanto proposto dalla rete. Le scuole, per esempio, nel fare ricerche storiche, come si vede nell'immagine qui sotto.


 
 Ultimamente spopola l'ultimo dei tre stemmi qui sopra pubblicati, reperito sulle pagine Wikipedia dedicate ai Malatesta. Si trova usato anche in ambio rievocativo e persino in documentari televisivi (Illustri conosciuti, Federico da Montefeltro, TV2000, dal minuto 9.02).
Lo stemma proviene dallo Spreti - famiglia Malatesta Ripanti(1) - ed ha avuto successo attraverso il Santi Mazzini (2) che pubblica anche un altro stemma altrettanto inadeguato a rappresentare i Malatesta. Un discreto successo hanno anche primi due stemmi del terzetto pubblicato, la cui "antichità" (sono tratti da stemmari sei-settecenteschi) attrae l'osservatore; tuttavia, anche questi non hanno alcuna attendibilità, se non quella (pur importante) di rappresentare la percezione araldica dei compilatori di stemmari nei secoli meno luminosi dell'araldica.
Eppure, anche sul web compaiono fonti attendibili (belle e pronte, o da interpretare) come nelle raccolte di Luca Barducci su Printerest.
 
Il mio intervento sugli stemmi del sepolcro di Paola Bianca, non è passato inosservato. E' stato spunto per l'apertura di una discussione su Wikipedia che ha portato alla sostituzione dello stemma impropriamente attribuito ai Malatesta signori in Romagna, nelle Marche e in Umbria. Ora su Wikipedia campeggia uno stemma più consono.


https://it.wikipedia.org/wiki/Malatesta#/media/File:Blasone_Malatesta.svg
 
 
Sul web, riguardo i Malatesta, vanno certamente segnalati i preziosi contributi degli amici Massimo Predonzani (L'araldica di Pandolfo III Malatesta, signore di Brescia e Bergamo) e Luca Barducci (I cimieri nell'araldica malatestiana).

Note
1) V. SPRETI (a cura), Enciclopedia storico-nobiliare italiana, vol. IV, Milano 1928-36, rist. an. Forni, Bologna 1981, p. 259.
2) G. SANTI MAZZINI, Araldica. Storia, linguaggio, simboli e significati dei blasoni e delle arme, Milano 2003, p. 220.
 
 


mercoledì 9 agosto 2017

Il sigillo di Corrado da Montefeltro vescovo di Urbino dal 1309 al 1317


Lo stemma della città di Urbino e quello della famiglia dei Montefeltro sono strettamente legati, anzi, si può dire che tra la fine del XV s. e l'inizio del XVI s. il comune di Urbino adottò l'arma dei signori. Su questo mi sono soffermato, in ultimo, nel libro Le Marche sugli scudi. Atlante storico degli stemmi comunali, edito da Andrea Livi Editore, nel 2015, a cura di Mario Carassai.
Resiste, però, una tradizione ampiamente ripresa dalla storiografia, secondo la quale Urbino ebbe per stemma un'aquila, poi variamente individuata tra le varie che appaiono anche nello stemma comitale e poi ducale dei Montefeltro.
Esiste l'importante descrizione di un sigillo del comune di Urbino, recente un'aquila, impresso nel 1232, pochi decenni dopo la formazione del comune e due anni prima dell'avvento al potere dei Montefeltro, in una città che riconosceva l'autorità imperiale. Tuttavia, dopo questa antica testimonianza (che è relativa al sigillo e non allo stemma, e che precedette radicali e violenti cambi di regime tra le parti ghibellina e guelfa), non c'è più traccia di un'aquila tre le insegne della città. Può darsi che questa assenza sia dovuta solo alla perdita dei documenti, ma questo è lo stato dell'arte. Anzi, se un'aquila compare tra le insegne civiche nelle terre dei Montefeltro, ciò accade nel territorio del Montefeltro, non nel comitato di Urbino (si veda sempre Le Marche sugli scudi.
La storiografia dei Montefeltro e la storiografia araldica sulla casata che ha seguito la prima, hanno però individuato un documento più recente del sigillo comunale del 1232: il sigillo di Corrado da Montefeltro, vescovo di Urbino dal 1309 al 1317. In questo sigillo è stato individuato uno stemma con l'aquila ed è pertanto stato sostenuto che quello stemma (comunale) campeggiava nel sigillo vescovile in virtù dell'antico titolo di vescovo conte o comunque in virtù del ruolo svolto dall'istituzione vescovile nella nascita del comune. Questa interpretazione nasce dalla lettura del sigillo offerta da Bramante Ligi, e dall'immagine dell'impronta pubblicata nel suo libro I vescovi e arcivescovi di Urbino. Notizie storiche, Urbino 1953.
L'osservazione diretta dell'impronta, però, ha permesso al sottoscritto di escludere la presenza di uno stemma con l'aquila.
Come ho già scritto più volte in altre sedi, l'aquila sembra comparire come stemma autonomo solo col conte Antonio da Montefeltro, tra gli ultimi decenni del XIV s. e i primi anni del XV. Compare come insegna che i conti useranno come propria e del tutto verosimilmente non come insegna "civica".

Questo, il succo di quanto è possibile leggere nel mio ultimo intervento:
Il sigillo di Corrado da Montefeltro vescovo di Urbino dal 1309 al 1317 e le implicazioni araldiche riguardo gli stemmi del casato e della città di Urbino, pubblicato sulla rivista dell'Istituto Araldico Genealogico Italiano: “Nobiltà”, a. XXIV, nn. 138-139, maggio-agosto 2017, pp. 329-340, ISSN 1122-6412.

 
 
N.B. - La rivista "Nobiltà" è distribuita nelle principali biblioteche e presso tutti gli Archivi di Stato. 

lunedì 24 luglio 2017

Stemmi a colori nel sepolcro di Paola Bianca Malatesti


Sotto il porticato antistante alla chiesa di San Francesco, a Fano, è stato traslato il monumento funebre di Paola Bianca Malatesti. Figlia di Pandolfo II signore di Pesaro, vedova di Sinibaldo Ordelaffi signore di Forlì, sposò nel 1388 di Pandolfo III Malatesti, signore di Fano.  Paola morì il 13 giugno 1398, ma il suo splendido sepolcro fu realizzato solo tra il 1413 e il 1415 dallo scultore veneziano Filippo di Domenico, che per quest’opera ricevette 470 ducati. Originariamente collocata nella cappella maggiore della chiesa, fu traslata sotto il portico tra la fine del secolo XVIII e l’inizio del successivo e non nel 1659 come indicato nella targa murata al di sopra del monumento.


 
L’opera è certamente una delle più importanti testimonianze del dominio malatestiano a Fano e uno dei monumenti più insigni della città. Versa ormai da anni in stato di grave incuria. Nonostante pubbliche denunce, il monumento continua a essere nido di piccioni, e persino il volto della defunta è oltraggiato dal guano.



Alcuni anni fa, per un caso, salvai dalla stessa sorte il bassorilievo di San Paterniano custodito presso il Museo civico: appena accortasi della situazione, la direttrice, fece subito intervenire un restauratore e provvide alla successiva protezione del prezioso manufatto. Sorte analoga non è toccata a Paola Bianca la cui cura non ricade evidentemente sotto mani altrettanto amorevoli.
Oltre alla defunta e a un ricco corredo d’immagini sacre, il monumento mostra gli stemmi dei Malatesti: gli stemmi della defunta che erano anche quelli del marito. Sul fronte: a destra dell’epigrafe c’è lo stemma bandato, a sinistra dell’epigrafe c’è lo stemma delle tre teste, entrambi dotati della classica bordura indentata; sui fianchi i due stemmi si trovano con collocazione invertita. Resta qualche traccia della pittura che colorava gli scudi, ma apparentemente non offre alcuna indicazione utile. Tuttavia gli smalti degli stemmi malatestiani sono ampiamente noti e così ho pensato di proporre gli scudi del sepolcro con i smalti... anche per fare giustizia di quanto inopinatamente propone Wikipedia. Peraltro, credo che vada segnalata la favolosa la rappresentazione delle tre teste.



Stemmi malatestiani con gli smalti
 
 
https://it.wikipedia.org/wiki/File:Coat_of_arms_of_the_House_of_Malatesta.svg
Da Wikipedia, presente in 90 pagine



S. MASIGNANI, La scultura nei territori malatestiani dal Duecento al Quattrocento, in L. BELLOSI, Le arti figurative nelle corti dei Malatesti, Rimini 2002, pp. 136-141.

martedì 30 maggio 2017

Per i Brancaleoni di Casteldurante



Si chiama Stefano Sarti, ma è noto come Freddy Webster. Ormai da alcuni anni si dedica alla rievocazione di un personaggio storico d’epoca medievale: Brancaleone Brancaleoni di Casteldurante (c. 1295 - 1379).
La passione per queste attività segue strade oscure e non ho mai compreso veramente perché un giovane uomo della Riviera romagnola si sia tanto appassionato per il signore della Massa Trabaria, ma tant’è. Così, nell’impervio mondo della rievocazione storica, Freddy persegue il suo obiettivo. L’audacia va premiata, soprattutto se è unita alla perseveranza. Per questo motivo, io che non sono stato altrettanto perseverante, se forse sono stato audace, nel perseguire un analogo scopo in quell’impervio mondo, ho deciso di sostenerlo, per quel che posso.
Tempo fa fornii al novello Brancaleone i modelli storicamente documentati del suo stemma. Uno campeggia, da tempo immemore, ormai senza smalti, sulla facciata del cosiddetto Palazzo della ragione di Sant’Angelo in Vado; l’altro è stato riscoperto qualche anno fa nella chiesa di San Donato, nel territorio della stessa città un tempo dominio dei Brancaleoni, e reca gli antichi smalti.
 

 
Con quell’insegna che, a parte la brisura, è come quella del celebre Maghinardo Pagani da Susinana, «il lioncel dal nido bianco» di dantesca memoria (Inf., XXVII, 50 s.), ho dipinto il vessillo, Brancaleone stesso ha decorato il scudo e abili artigiani hanno impreziosito mirabili brocche che colorano la tavola.
La mia tenda attende un adeguato apparato decorativo mobile per i momenti in cui verrà prestata nuovamente prestata per le iniziative del Brancaleoni di Casteldurante.
Per contatti con I Brancaleoni di Casteldurante: brancaleonicasteldurante@gmail.com