Nell’attuale piazza Pio XII di Sant’Angelo in Vado si
affaccia il cosiddetto Palazzo della ragione, edificato nel 1397 (1), antica sede
del comune (rimarrà tale fino al 1838) nel quale è inglobata la torre civica
eretta nel 1576.
Fotografia di Elio Rossi |
Sant’Angelo in Vado fu a lungo il centro principale dell’antica
provincia pontificia di Massa Trabaria e quando venne edificato il palazzo era
soggetto al dominio del Brancaleoni che avevano ottenuto il riconoscimento
formale del loro dominio attraverso il vicariato apostolico in temporalibus, concesso due anni
prima, nel 1395, ai fratelli Pierfrancesco e Gentile e al loro nipote Galeotto
del fu Niccolò Filippo (2).
La facciata dell’edificio è caratterizzata da un loggiato di
cinque archi gotici e nell’ordine superiore, delimitato da un cordolo, da
cinque finestre di fattezze tardogotico. È inoltre decorato con tre
bassorilievi scolpiti con insegne del potere pubblico:
a destra l’Arcangelo Michele con lo scudo crociato, emblema del Comune;
a destra l’Arcangelo Michele con lo scudo crociato, emblema del Comune;
al centro, in posizione d’onore, lo stemma della Chiesa, ovvero dell’autorità sovrana della Massa Trabaria e del comune;
a sinistra lo stemma dei Brancaleoni di Casteldurante, vicari in temporalibus, costituito da uno scudo col leone attraversato dalla banda, e munito di un capo d’Angiò.
La superficie dei tre manufatti è parzialmente coperta da
una patina giallastra che non sembra potersi ricondurre ad uno smalto araldico:
tale patina è presente nel campo dello scudo dell’Arcangelo e in quello
dell’arma dei Brancaleoni che dovevano essere bianchi. È però piuttosto
improbabile che queste insegne araldiche siano state monocrome e sarebbe
auspicabile un’indagine tecnica accurata. Questa potrebbe anche chiarire l’origine
della presenza di un colore rossiccio in alcune parti dei bassorilievi come le
ginocchiere dell’armatura e le piume esterne delle ali dell’Arcangelo o di
altre che certamente dovevano essere d’oro o gialle come i gigli del capo d’Angiò.
Con ogni probabilità queste tre insegne dovevano essere
colorate in modo adeguato. L’arcangelo poteva avere colori naturalistici, ma lo
scudo doveva essere bianco con la croce rossa. L’arme della Chiesa doveva avere
il campo rosso, caricato di figure bianche (la croce accantonata da quattro
coppie di chiavi legate e incrociate in decusse) come nella celebre miniatura
che raffigura l’Albornoz,
la stessa che si ritrova in molti luoghi soggetti al papato, come a Gubbio nel Palazzo dei Consoli (dove la composizione è in qualche modo analoga, con l'arma sovrana al centro e quella comunale in seconda posizione alla sua destra);
l’arma dei Brancaleoni era certamente munita
degli stessi smalti di quella recentemente riscoperta nella chiesa di San
Donato e risalente al 1351: d’argento/bianco al leone d’azzurro sul
tutto la banda diminuita di rosso, con l’aggiunta del capo d’Angiò che era
d’azzurro al lambello di rosso con gigli d’oro/giallo tra i pendenti. Questo
capo era insegna della costante adesione al partito guelfo di questo ramo dell’articolata
stirpe dei Brancaleoni (3). Era un’aggiunta all’arme, che rimaneva per così dire separata:
poteva essere presente o omessa secondo le necessità politiche, artistiche o d’altra
natura anche perché non fu quasi mai una vera e propria concessione ma un’assunzione
spontanea dei fautori della causa e dei suoi campioni Carlo I e soprattutto
Roberto di cui rimane lo stemma nella porta di Macerata Feltria. Lo stemma qui
collocato può essere considerato comune a tutti e tre i soggetti titolari del
vicariato apostolico in temporalibus
nel periodo di edificazione del palazzo - sempre che gli stemmi siano stati
collocati in quel momento (4) - come dimostrano tutti gli altri documenti araldici
conosciuti, tra gli altri il citato stemma di S. Donato (1351)
L'originale è rivolto per ragioni di euritmia |
e quello del
sepolcro di Bartolomeo Brancaleoni nella chiesa di San Francesco a Mercatello
sul Metauro (1425).
L'originale è rivolto per ragioni di euritmia |
La bellezza dell’insieme della semplice rappresentazione
araldica di Sant’Angelo in Vado, se non unica certamente rara nel panorama
locale, colpisce l’osservatore, crediamo anche quello non esperto di araldica.
Tuttavia può sfuggire ai più, e così pare sia avvenuto per decenni, l’anomala
composizione dello stemma centrale: quello della Chiesa.
Nel descriverlo, abbiamo evocato una croce accantonata dalle
chiavi di San Pietro, ma qui una croce non c’è, salvo volerla identificare con
una croce di Sant’Antonio, il cosiddetto Tau o croce commissa che sembra qui
rappresentata con la traversa coincidente col bordo superiore dello scudo.
La verità è che ci troviamo di fronte a uno stemma montato
male. Si noterà che il manufatto è realizzato su due lastre, ebbene quella
superiore è stata montata al rovescio. Osservando il bordo dello scudo si
rileva anche una leggera, ma percepibile, differenza di larghezza nel punto di
giunzione. Girando la lastra superiore la traversa della croce risulta
perfettamente collocata, al centro e la segnalata differenza di larghezza viene
meno. Anche le chiavi risultano ora opportunamente collocate.
Quanto e perché venne montato in questo modo lo stemma della
Chiesa? Non certo all’epoca dell’originaria collocazione (se avvenuta sul
finire del Trecento), si aveva allora l’esatta cognizione di quale fosse lo
stemma dello stato del papa. E allora?
Conducendo una ricerca sull’araldica dei Brancaleoni, presso
l’Archivio della Soprintendenza ai Beni Architettonici delle Marche, mi sono
imbattuto in una lettera del Soprintendente pro tempore con la quale si
ingiungeva l’immediato ripristino del rivestimento in mattoni della facciata
del palazzo nella parte soprastante il portico, smantellata nel 1949 a causa di
lavori di ristrutturazione necessari dopo i danni causati dalla Seconda Guerra
Mondiale (5). Sull’argomento, nello specifico, non è stato possibile
rintracciare alcun documento nell’archivio del Genio Civile ora depositato
presso l’Archivio di Stato di Pesaro.
Fu in occasione di quei lavori, che, smontato il
rivestimento in mattoni vennero ovviamente tolti anche gli stemmi. L’imperizia
del muratore nel momento del ripristino comportò, di tutta evidenza, il
collocamento errato della lastra superiore dello stemma del papato.
Conferma questa ipotesi anche la fotografia pubblicata da
Locchi nel 1934 (7). Si rileva, non solo la diversa forma delle finestre, ma anche
la diversa collocazione degli stemmi. A differenza di oggi quello della Chiesa era a contatto con la cornice delle finestre.
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1) V. LANCIARINI, Il Tiferno Mataurense e la Provincia di Massa Trabaria, vol. I, Roma 1912, p. 415.
2) E. PERINI, La signoria dei Brancaleoni di Casteldurante, Firenze 2008, p. 59.
3) Quello di Casteldurante era un ramo di forte tradizione guelfa, indotta verosimilmente anche dalla necessità di contrastare la spinta espansionistica dei Montefeltro conti di Urbino campioni del partito ghibellino. Altri rami coevi della famiglia dei Brancaleoni furono Piobbico, Rocca e Castel Pecorari, tutti ghibellini, A. TARDUCCI, Piobbico e i Brancaleoni, Cagli 1897.
4) Curiosamente non li ricorda Costanzo Felici, nel suo Origine de signori Brancaleoni scritta per me Costanzo Felici a messer Francesco Sansovino, scritto nel 1582, pubblicato in D. BISCHI, I Brancaleoni di Piobbico in Costanzo Felici e Francesco Sansovino, Rimini 1982, p. 61.
(5) Soprintendenza ai Beni Architettonici e Paesaggistici delle Marche, Ancona, Archivio Storico, M-PS-57-378, Sant’Angelo in Vado, Palazzo della Ragione, lettera del 31.08.1949.
6) Archivio di Stato di Pesaro, Genio Civile, nn. 780 e 5029.
7) O.T. LOCCHI, La Provincia di Pesaro ed Urbino, Roma, 1934, p. 783.